Lo spettacolo di Liv Ferracchiati ispirato a un capolavoro di Ibsen
Per il suo primo lavoro in veste di artista associato del Piccolo Teatro di Milano, il regista e performer umbro sceglie di partire da un celebre dramma di Ibsen per riflettere su come allestire i “classici” ma anche sull’antitesi arte e vita
Hedda. Gabler. come una pistola carica: così Liv Ferracchiati (Todi, 1985) ribattezza il dramma di Ibsen che non sottopone né a una riscrittura né, tantomeno, a un adattamento vagamente attualizzante, bensì elegge quale punto di partenza per un discorso squisitamente metateatrale su modalità di messinscena di opere del passato così come su identità, reale e fittizia, dell’attore.
Ecco, dunque, che, quasi come se il lavoro condotto a tavolino prima delle prove sul palcoscenico fosse diventato concreto oggetto di rappresentazione, Ferracchiati affianca scene effettivamente tratte dal dramma di Ibsen – sottoposto, fra l’altro, a una traduzione nuova di zecca, per mano di Andrea Meregalli – a speculazioni tanto sui personaggi quanto sulle consuetudini rappresentative del cosiddetto teatro naturalistico.
LO SPETTACOLO DI LIV FERRACCHIATI
Il regista si presenta in scena assumendo l’identità del suo personaggio, l’accademico Ejlert Løvborg, e affermando che ciò che ci apprestiamo a seguire è un nuovo esempio di “autofiction”. E analoghi slittamenti – o, come afferma Ferracchiati stesso, “disattese drammaturgiche” – vengono incarnati dagli altri interpreti, costantemente trasmigranti fra la propria identità fuori dal palco, quella assunta nella dramatis personae ma anche quella di Ibsen stesso, di cui sono rapinati a turno vari aneddoti biografici. E lo stesso meccanismo di “disattesa” coinvolge pure l’implicita riflessione su come mettere in scena un testo classico: è evidente la necessità del regista non tanto di “tradirli” bensì di “problematizzarli”, discernendo fra quanto è incrostazione generata dal contesto e dalle convenzioni – termine quest’ultimo che ricorre spesso nello spettacolo – contemporanei all’autore; e quanto, invece, possiede un valore universale, una pregnanza ancora valida nell’oggi. Nel caso di Hedda Gabler questa universalità pare risiedere, però, soprattutto nella stringente costruzione del dramma che nel ritratto di una donna, la protagonista eponima, afflitta da insopprimibile noia esistenziale. O, almeno, questo è quanto emerge dall’allestimento di Ferracchiati.
FINZIONE E REALTÀ A TEATRO
Che il dramma di Ibsen sia quasi un pretesto per parlare del fare teatro è testimoniato anche dalla contaminazione con un altro testo dell’autore norvegese, l’ultimo da lui composto, quel Quando noi morti ci destiamo da cui è tratto il personaggio di Irene (Giulia Mazzarino), quasi un doppio della protagonista Hedda Gabler (Petra Valentini): entrambe lamentano l’assenza di “vita” e “bellezza” nelle proprie esistenze, aspirazioni condivise dal regista stesso che, nel corso dello spettacolo, pare appunto interrogarsi su quanto l’arte teatrale stessa possa concretamente soddisfarle.
Un’arte di cui è denunciata esplicitamente l’artificiosità: la scenografia – ideata da Giuseppe Stellato e significativamente costruita interamente in cartone – consiste in piattaforme che riproducono vari aspetti della sala descritta da Ibsen e che soltanto nell’ultimo atto viene ricomposta e allontanata – il tutto a vista ‒ verso il fondo del palco del Teatro Studio. Non solo: cambi d’abito e sistemazione di parrucche che facciano assomigliare i personaggi femminili alle didascalie originali avvengono davanti agli spettatori e, ancora, Hedda/Petra svela come il colpo di pistola con cui la protagonista pone fine alla sua vita sia stato opera di un macchinista. La natura di intrinseca finzione della messinscena teatrale è dunque svelata apertamente e, d’altronde, si tratta della questione più evidente e superficiale. Più complessa e spinosa è, invece, quella concernente il lavoro dell’interprete, che si finge chi non è ma, dopo essersi levato il costume del proprio personaggio ‒ come nella parte finale fa lo stesso Liv, ora non più Ejlert Løvborg ‒ chi è davvero? L’arte teatrale riesce realmente a donare bellezza e significato alla sua esistenza? Quella dell’interprete – in scena anche Francesco Alberici, Renata Palminiello, Alice Spisa e Antonio Zavatteri – è un’identità fluida e stratificata ma, senza stare a scomodare Pirandello, l’attore – suggerisce il regista – è colui che, togliendosi il costume e infilandosi i jeans, pensa alla pasta alle zucchine che preparerà per cena.
Arte e concretezza, finzione e realtà: dualismo che cela un equilibrio instabile eppure necessario, per evitare che quelle “pistole cariche” che sono le anime inquiete – attori e artisti in primis – non si condannino all’autodistruzione.
Laura Bevione
https://www.piccoloteatro.org/it/
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