La performance di Alessandro Sciarroni lunga 5 ore
Si intitola “Dream” la long performance che l’artista ha portato al festival FOG di Milano. Ma come è arrivato a concepire un’opera simile? Glielo abbiamo chiesto
Andare incontro a un’opera che appartiene al mondo di Alessandro Sciarroni (San Benedetto del Tronto, 1976) significa essere disposti a farsi sorprendere. Sempre. Non esiste occasione in cui questo sentimento non si manifesti. Lo stupore è guidato dal trasporto, come accade a un bambino che si accinge a emozioni e bellezze inedite che, spesso, non si riescono a decifrare.
Dream è stato proposto, nella sua ultima versione, alla Triennale Milano il 1° e il 2 aprile scorsi, all’interno di una scatola magica che è il festival FOG, interamente dedicato alle arti performative, siano esse la danza, il suono, il movimento, la parola.
Dream è una long performance che attinge da un passato in cui era prassi intrattenersi per delle ore in una sala per assistere a un momento performativo, in totale condivisione con il pubblico. Nel corso delle cinque ore previste, il pubblico si muove, entra, esce, a volte se ne va, spesso torna.
Dream, come suggerisce il titolo, esplora una dimensione onirica che va maneggiata con cura: sei performer accompagnano le loro visioni nello spazio, attraverso il movimento, qualche piccolo spiraglio di voce, il respiro, le note di un pianoforte suonato dal settimo performer, il contatto visivo, qualche contatto fisico. E alle loro visioni si accompagna il disegno che Sciarroni pone al di sopra, la visione che coinvolge pubblico e performer in una coralità fluida e delicata, silenziosa e palpitante, amabile, serena e forse anche un po’ inquieta.
Le cinque ore che sembravano spaventare tanto invece volano via. Abbiamo fatto qualche domanda a Alessandro Sciarroni.
INTERVISTA AD ALESSANDRO SCIARRONI
Quando hai sperimentato la long performance per la prima volta?
Dream ha debuttato nel dicembre 2022 a Parigi al Festival d’Autunno. Durante i mesi di produzione ci siamo allenati attraverso alcune aperture al pubblico “private” e pubbliche. Abbiamo aumentato in maniera graduale la durata fino ad arrivare a cinque ore.
Credo si tratti della durata più lunga rispetto agli altri miei lavori. È anche vero, però, che nelle altre “danze di durata” che ho composto l’azione era molto più estenuante dal punto fisico. Per esempio Augusto dura un’ora, ma in quello spettacolo gli interpreti ridono senza sosta. Oppure nel progetto Turning la durata è di circa 40 minuti, ma ruotiamo su noi stessi per tutto il tempo della performance. Anche Save the last dance for me dura poco meno di venti minuti. Ma in quel lavoro i danzatori eseguono una danza tradizionale che normalmente viene compiuta solamente per due minuti perché è molto faticosa.
Quali aspetti ti interessano della long performance?
Mi interessa prolungare la durata perché è il solo modo per mettere a fuoco l’oggetto della ricerca. In questa maniera si crea una tensione tra i performer e gli spettatori. Alle volte le prove somigliano a degli allenamenti. Insistiamo sul medesimo stato o sulla stessa azione per capire come riuscire a provare “piacere”. Si tratta sempre di questo: scoprire qualcosa che altrimenti resterebbe invisibile. Accettare la fatica e trasformarla in un superpotere.
Abbracciare lo spettatore attraverso la leggerezza dello sforzo, che in alcuni casi genera un sorriso, o uno stato sensibile di commozione.
Se con alcuni performer il rapporto è più consolidato, con altri è più recente: come e in quanto tempo si è creata l’atmosfera armonica che si percepiva in sala?
Come dicevo, andiamo sempre per gradi e organizziamo sessioni di lavoro che durano diverse settimane per incorporare una pratica. Cerco di arrivare ai debutti con una solida preparazione fisica e mentale. A volte può essere frustrante, ci si può sentire ingabbiati nella pratica. Per questa ragione durante le settimane di lavorazione è molto importante non lavorare mai troppe ore al giorno, e in alcuni casi distribuire giorni off per permettere al corpo di rigenerarsi. Ogni opera presenta una sfida inedita. I nuovi performer e i collaboratori con cui ho lavorato in precedenza si ritrovano a scoprire la nuova pratica insieme. Siamo tutti impreparati il primo giorno di prove. Mi piace iniziare una nuova produzione con questo senso di inadeguatezza.
DREAM DI SCIARRONI
Quanto tempo hai impiegato per arrivare a questo esito? Credi che ci possano essere altri step e forse che si arrivi a uno spettacolo, nel senso più canonico del termine?
Durante il periodo pandemico non ci era permesso di far avvicinare gli spettatori ai performer. Quindi nel corso di una residenza abbiamo organizzato i materiali coreografici in maniera tradizionale, frontale, per poterli mostrare. È stata una scoperta interessante. Per qualche tempo abbiamo parlato di una possibile seconda versione di Dream. Non so se verrà mai realizzata. Quello che è successo a Milano, la maniera in cui il pubblico si è avvicinato all’azione mi ha molto colpito. Credo che questa sia la natura definitiva del lavoro.
Ci sono aspetti molto importanti che emergono dopo alcune ore di lavoro, grazie soprattutto al venir meno dei filtri emotivi e al sopravvento della stanchezza. Quali sono gli aspetti di Dream a cui sei più affezionato?
Come dice uno dei personaggi del libro che consegniamo all’uscita al pubblico: la musica è l’unica rappresentazione possibile dell’anima.
In Dream la funzione del settimo performer, Davide Finotti, il pianista, è fondamentale.
Lo stato dei corpi raggiunge quel tipo di vibrazione anche grazie al fatto che i suoni che Davide genera (così come i suoi silenzi) sembrano riuscire a interpretare i loro stati emotivi. Sono il paesaggio sonoro del sogno che i performer stanno sognando.
Allo stesso modo lavora Valeria Foti con le luci. Per me si tratta dell’ottava performer. La sua presenza è discreta, quasi nessuno si accorge di lei. Ma resta in piedi per tutte e cinque le ore nello spazio, mimetizzandosi tra gli spettatori e modificando continuamente l’impianto luminoso della performance attraverso un iPad.
Non posso dire a cosa sia affezionato maggiormente in questo lavoro. Ogni volta per gli interpreti è un viaggio diverso. Anche il pubblico è in grado di influenzare il loro stato, nonostante si abbia l’impressione che lo sguardo dei performer sia sempre altrove.
Ci piace chiamarlo “corpo sonnambulo”. Significa essere allo stesso tempo nel tempo presente e in un “altrove”.
Piera Cristiani
https://www.alessandrosciarroni.it
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