Cos’è l’identità? Qualche risposta dal Festival di Santarcangelo
Nel 2023 la storica rassegna propone performance che “mettono in discussione i modi consolidati di leggere la realtà”, a partire dalle identità tradizionalmente riconosciute
Si è aperto lo scorso 7 luglio 2023 il 53esimo Festival di Santarcangelo, con una programmazione riassunta dal titolo Enough not enough, a sottolineare la tensione fra quanto non siamo più disposti ad accettare e quanto, al contrario, ancora legittimamente desideriamo. Ed è parso evidente dagli spettacoli proposti nel primo fine settimana come ciò cui i performer in scena aspirino sia il riconoscimento di un’identità – artistica, “razziale”, sessuale, culturale – non incasellabile in categorie standardizzate e dunque “confortanti”. Quanto poi questa legittima rivendicazione conduca a plasmare un’identità alternativa altrettanto rigida e stereotipata ed essa stessa consolatoria – chi vi si riconosce, spettatori compresi, si autoconvince che, proprio in virtù di essa, può considerarsi automaticamente “dalla parte giusta” – è questione su cui occorrerà riflettere, per non relegare questa comunità allo status di “paria”, come preconizzava in qualche misura Hannah Arendt.
Il Festival di Sant’Arcangelo e la messa in discussione delle identità culturali
La richiesta di uno sguardo azzerato da una nuova verginità è quella implicita nel solo concepito e agito dal danzatore sudafricano Tiran Willemse: il suo Blackmill è la prima parte di una trilogia intitolata Tromppoppies – termine afrikaans riferito alle majorette – che destruttura e reinventa i movimenti delle mani e i precisi ritmi di marcia seguiti appunto dalle majorette per denunciare l’attuale inconsistenza di atavici pregiudizi sulla mascolinità africana. E di quanto l’identità culturale influenzi non soltanto il nostro atteggiamento ma pure la valutazione del valore artistico tratta un’altra artista sudafricana, Ntando Cele, nel suo SPAfrica, realizzato con il tedesco Julian Hetzel: è paradossalmente significativo che una performance esplicitamente grottesca e anche perfidamente satirica, un’arguta denuncia della diffusa tendenza a ricorrere al colore della pelle o al presunto “trauma” dell’artista quali criteri per determinarne la qualità, sia stata interpretata dalla maggior parte del pubblico “soltanto” quale una rivendicazione razziale rispetto al neocolonialismo e ai farisei sensi di colpa europei.
Identità sessuali fluide
Complessa e articolata è la riflessione condotta dalla performer canadese Dana Michel nel suo Cutlass Spring: oggetti estratti dalla quotidianità domestica – una forchetta, una scatola per biscotti, sacchetti di ghiaccio, coperte e tovaglie di pizzo, sedie di plastica – divengono correlativi oggettivi della policroma identità femminile. Madre, moglie, amante, imprenditrice – ruoli suggeriti anche dai costumi, dallo scamiciato scozzese al completo di pelle marrone – alla donna è ognora richiesta dedizione assoluta, una fatica esacerbata incarnata dalla stessa performer, che si costringe a movimenti – spesso a terra – macchinosi e malagevoli. Sforzo e rischio di alienazione sono alla base anche di un altro solo, Workpiece, interpretato dalla lituana Anna-Marija Adomaityte, anche ideatrice con Gautier Teuscher: venticinque minuti su un tapis-roulant per denunciare le condizioni fisiche e psicologiche degli “operai” della gig economy. Leggerezza e armonia contraddistinguono, invece, la danza di Catol Teixeira, performer dal Brasile: il suo Clashes Licking è una rivisitazione in chiave queer del leggendario Il pomeriggio di un fauno di Nijinsky.
Identità familiari ed eredità culturali
L’installazione interattiva Dear Laila, creata dal palestinese Basel Zaraa – nato in un campo profughi in Siria e residente nel Regno Unito – è uno struggente eppure lucidissimo promemoria sulle proprie radici – familiari, culturali ma anche politiche e sociali – donato da un padre alla figlia di cinque anni. Di eredità culturale si occupa invece la ricercatrice, coreografa e danzatrice brasiliana Ana Pi, da tempo impegnata nel rintracciare la persistenza della cultura africana nell’America centrale e meridionale. Il suo The Divine Cypher è, infatti, un omaggio non semplicemente celebrativo ma problematico e generativo, alle ricerche condotte nella prima metà del secolo scorso dalla ballerina, coreografa e antropologa di origine malgascia Katherine Dunham sull’eredità Vodoo a Haiti.
Un tentativo di problematizzare, invece, l’identità dello spettacolo dal vivo è quello condotto da Eva Neklyaeva, Marco Cedron e Lisa Gilardino con il progetto Samara Editions: al festival è possibile acquistare l’ultima uscita, Sense, un corposo cofanetto che racchiude il necessario per vivere tre differenti esperienze sensoriali, a casa propria, da soli o in compagnia, architettato da Kate McIntosh.
Laura Bevione
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