L’utopia teatrale di Mattias Andersson alla Biennale Teatro 2023
L’articolata creazione del regista svedese, ideatore di un’originale declinazione del teatro cosiddetto documentario, è un omaggio alla facoltà del teatro di essere spazio di evocazione del “possibile”
Affascinanti le espressioni che in quest’ultima edizione di Biennale Teatro hanno delineato nuove “utopie eroiche e meraviglie rivoluzionarie”, usando le parole dei direttori Stefano Ricci e Gianni Forte, per un teatro che tenta di riconquistare il proprio spazio nella competizione con i mezzi digitali. Tra queste utopie c’è senz’altro quella al centro dell’ultimo lavoro del regista svedese Mattias Andersson, Noi che abbiamo vissuto le nostre vite di nuovo (Vi som fick leva om våra liv, presentato al Teatro Alle Tese dell’Arsenale.
Il teatro documentario di Andersson
Drammaturgo e regista, prima direttore artistico del Backa Theatre e poi del Royal Dramatic Theatre di Stoccolma, Mattias Andersson ha fatto del suo teatro documentario un progetto dalla vocazione sociale, politica e popolare, di grande spessore filosofico. Con Noi che abbiamo vissuto le nostre vite di nuovo chiama in causa metodi di ricerca accademiche e collaborazioni con antropologi e sociologi per partire da una domanda sottoposta a 137 cittadini svedesi di diversi età e background: “Cosa fareste se vi fosse data la chance di rivivere la vostra vita?”
Una domanda esistenziale che porta con sé l’odore dell’angoscia: per quell’occasione persa per sempre o per quell’errore che non si può cancellare. A partire dal materiale raccolto, dalle risposte più insignificanti – qualcuno avrebbe studiato il francese invece del tedesco, qualcun altro non avrebbe mai smesso di fumare canne – fino a quelle connesse al senso di colpa e alla reale opportunità dei legami affettivi, il regista ha realizzato una partitura drammaturgica che unisce voce e coreografia, molto ben accordata nei toni e nei registri.
Andersson e la teoria dell’eterno ritorno
Mai fedeli a un unico personaggio i tredici attori in scena – a formare un cast di alto livello – restituiscono la costellazione di voci. Agiscono su uno spazio scenico nudo, in linea con il minimalismo estetico di Andersson: “uno spazio vuoto che ti fa capire che la vita può essere qualsiasi cosa” ci confida. Sin da subito quella domanda ci mette di fronte all’amara constatazione di una falsa libertà di scelta, dell’impossibilità di definire la nostra identità, di autodeterminarci all’interno di una società che ha già scelto per noi: “Siamo anima, non corpo: questo ce lo attribuisce il mondo in cui viviamo. E allora sarebbe più corretto chiedersi: “Cosa faremmo se avessimo la possibilità di scegliere davvero come vivere la vita e con chi”. Quella di Andersson oltre che una battaglia agli stereotipi è una questione di filosofia, o meglio, di fisica: un’apertura verso l’eterno ritorno di Nietzsche e gli universi paralleli. Siamo materia che, una volta compiuto il proprio ciclo, ritorna su sé stessa, in una serie di identiche ripetizioni e le nostre scelte non sono che la somma di infinite combinazioni di particelle, che non possiamo controllare. Non ci resta, dunque, che sedere attorno al tavolo con l’oscura signora vestita di nero come i sei personaggi di Andersson, a turno tirare il nostro ultimo dado e attendere, disperati, l’uscita di scena definitiva.
Il teatro come spazio del possibile
Il Teatro è l’unico espediente in grado di sfidare gli schemi e costruire nuovi spazi del possibile: una vera chance per rivivere le nostre vite daccapo. Vi som fick leva om våra liv non è, dunque, che un grande omaggio al teatro e al suo progetto utopico. Ci dice Andersson: “Il Teatro può rompere la fissità del quotidiano, alleviare l’essere umano da quella condizione di prigionia, per aprirsi al sogno e al desiderio di vivere vite alternative”. Netta è la contrapposizione rispetto alla provocazione di La Plaza di El Conde de Torrefiel (anch’essa ospite alla Biennale Teatro): la compagnia mostra un teatro consacrato alla morte, come testimonia già l’apertura “cimiteriale” del sipario, con una distesa di fiori e lumini e la presenza di personaggi-fantocci, dal volto coperto da una patina che ne disumanizza i tratti e dai movimenti innaturali. Al contrario, lo spettacolo di Andersson celebra il teatro come arte del futuro: “Credo nel potere del teatro sul futuro, un’arma in grado di farci prendere le distanze dal consumo compulsivo dei media e dal determinismo generato dalla globalizzazione”.
Valentina Cirilli
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