Badanti e colf protagoniste dello spettacolo di Marco Martins a Bologna
Lo spettacolo Pendulum, diretto dal regista portoghese Marco Martins, indaga le esistenze di quelle donne, emigrate di prima o seconda generazione, diventate presenze indispensabili in molte delle nostre famiglie
Realizzato nell’ambito del progetto internazionale Prospero Extended Theatre, di cui ERT-Emilia Romagna Teatro è partner italiano, e andato in scena all’Arena del Sole di Bologna, lo spettacolo Pendulum è un virtuoso esempio di teatro creato su e con non professionisti, ovvero con persone chiamate a essere loro stesse sul palcoscenico anziché “rappresentare” qualcun altro. Una pratica usuale per il regista portoghese Marco Martins, nato a Lisbona nel 1972 e attivo non solo nel teatro ma anche nel cinema – il suo primo lungometraggio, Alice (2005), si è aggiudicato, fra gli altri, il premio quale miglior film alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes – e nelle arti visive (ha collaborato, per esempio, con Michelangelo Pistoletto).
Di cosa parla “Pendulum”?
Lo spettacolo è incentrato sull’esistenza di sette “pendolari”, donne emigrate da ex-colonie portoghesi – São Tomé, Brasile, Mozambico – e giunte nella periferia di Lisbona per lavorare come badanti, colf o baby-sitter nelle case della borghesia che abita il centro della capitale lusitana. Donne il cui pendolarismo coinvolge due differenti dimensioni geografiche: quella più circoscritta della città, dalla periferia al centro e viceversa; e quella intercontinentale, dal paese di origine a quello di migrazione, dal Sud America e dall’Africa all’Europa, il “vecchio continente”, che Martins tramuta in un supermercato apparentemente colmo di opportunità ma anche governato da regole rigide – una metafora scenica forse non troppo originale ma, per fortuna, nient’altro che una comoda cornice per una narrazione che offre, invece, vari spunti di interesse. Le sette donne raggiungono il palcoscenico – inizialmente occupato da stracci colorati – progressivamente, muovendo dalla platea in cui sono accomodate accanto agli spettatori. Di età – dalla poco più che trentenne Nádia all’ultrasettantenne Juliana –, istruzione e stato civile anche molto diversi, le sette protagoniste portano nondimeno in scena storie percorse da un medesimo filo rosso, quello della consapevolezza di non poter avere la vita che avevano immaginato/sperato/sognato. Consapevolezza che certo si traduce in un policromo ventaglio di attitudini verso l’esistenza – accettazione più o meno tollerata, saggia ironia o anche attiva desolazione – e tuttavia mai si risolve in passiva disperazione.
Postcolonialismo e lavoro di cura nello spettacolo di Marco Martins
Le sette donne sono state costrette ad abbandonare genitori e figli, che solo il “miracolo” di Internet consente di sentire anche varie volte al giorno, ma anche possibili carriere – master in comunicazione o nelle arti performative – eppure paiono avere conquistato un baricentro stabile nel loro costante pendolarismo, geografico e, soprattutto, emotivo.
Di questa pragmatica ricerca di un equilibrio che assicuri un’accettabile sopravvivenza – spirituale ancora prima che materiale – parla nella sua intrinseca e genuina essenza lo spettacolo di Martins, al di là della stringente attualità dei temi trattati: la persistenza di un legame di dipendenza/sfruttamento fra ex-colonie e paesi colonizzatori; le condizioni materiali dei lavoratori domestici, spesso costretti a firmare contratti inadeguati rispetto al carico di lavoro; la questione della “cura” di bambini e anziani, un tempo affidata ai familiari – madri, figli – e ora delegata a “estranei” che sovente, divengono loro malgrado catalizzatori di quei sentimenti intimi e profondi che solitamente uniscono i consanguinei.
Cosa avviene sul palcoscenico in “Pendulum”?
Da un lato la sala spogliatoio-relax di un supermercato – la macchinetta del caffè, un tavolo cosparso di borracce e contenitori porta-vivande – e, dall’altro, visibile solo in alcuni sipari, la stanza di un interno borghese, con un letto e uno specchio dalla barocca cornice dorata.
Le sette donne raccontano la propria storia e, in alcuni casi, quella dei propri genitori; alcune spiegano il lavoro svolto in Portogallo, mostrando anche le foto degli anziani di cui si sono prese cura. Ballano molto – alcune danze tradizionali erano state vietate dai colonizzatori – e telefonano a figli e spasimanti non graditi. Sipari “naturalistici” si alternano ad azioni evocative e a visioni quasi oniriche, a suggerire la costante e inestricabile coesistenza di realtà e immaginazione, esistenza quotidiana e vita sognata. Martins, tuttavia, sa evitare il rischio schematismo, così come quello di trasformare il proprio spettacolo nel freddo esito di un’indagine sociologica, bensì traduce con arte la verità delle sue sette non-attrici nel proprio peculiare linguaggio drammaturgico, facendone risaltare l’irripetibile individualità e la schietta umanità.
Laura Bevione
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