Intervista al regista Davide Livermore: dalla scena al grande schermo con The Opera! 

Portare il montaggio cinematografico sul palcoscenico e far dialogare la lirica con le tecnologie visive hanno contraddistinto il grande regista torinese. Conversiamo con Davide Livermore di musica, arte e politica aspettando in sala la sua favola operistica

Il regista Davide Livermore (Torino, 1966), Direttore del Teatro Nazionale di Genova, è instancabile. Mentre con Elisabetta Regina d’Inghilterra di Rossini chiude la stagione del Teatro Massimo di Palermo, a Roma è acclamato alla Festa del Cinema per il film-musical The Opera!. Realizzato in virtual set con Paolo Gep Cucco, sarà un best-of di arie liriche ispirato a Orfeo ed Euridice con una parata di star quali Vincent Cassel e Fanny Ardant. Dalla prosa all’opera, da installazioni alla TV, la carriera di Livermore è un crescendo di sconfinamenti. Col suo metodo transmediale riesce a vivificare storie intrise di emozioni universali potenziate della musica. Conversiamo con lui aspettando in sala la sua favola operistica dal 20 gennaio 2025. 

Soprano Nino Machaidze in Elisabetta Regina d'Inghilterra, Teatro Massimo Palermo, 2024. Photo © Rosellina Garbo
Soprano Nino Machaidze in Elisabetta Regina d’Inghilterra, Teatro Massimo Palermo, 2024. Photo © Rosellina Garbo

Intervista a Davide Livermore 

A Palermo debutta la sua ultima regia, Elisabetta Regina d’Inghilterra di Gioacchino Rossini. Perché questo raro dramma rossiniano va in scena ricordandoci l’altra Elisabetta, quella del serial The Crown? 
Penso si debba riportare l’opera nel quotidiano non coi costumi moderni, ma comprendendone il soggetto. Spesso non si sanno raccontare le storie. Si preferisce un mezzo racconto, dando per scontato che si conosca già la storia dell’opera. Mi pongo sempre la domanda: ma sto raccontando la storia o no? 

Si tratta di un’attualizzazione dell’opera? 
Attualizzazione non so cosa significhi, il teatro è sempre attuale. Anche L’Orfeo di Claudio Monteverdi (1567-1643) lo è, perché la messa in scena avviene nell’oggi. Sono forse i costumi il problema? Perché mettere in discussione il fatto che il teatro è fatto dai vivi per i vivi? Mi viene il dubbio che faccia paura il teatro in sé. 

Il teatro d’opera rischia di diventare un museo? 
Il teatro non potrà mai essere un museo, perché passa attraverso il sangue di chi lo fa e lo produce. Registro che ci sono gusti personali, ma dobbiamo educare il pubblico a valutare come un artista serva la partitura, come racconta le storie. 

Come si devono raccontare le storie? 
Il regista non deve raccontare quello che gli piace, ma la storia. Quando serviamo la drammaturgia con idee furbette, di glamour o di gossip, invece, non riusciremo mai a raccontare lo strazio di Verdi o le storie esemplari di Puccini. 

E nel caso dell’Elisabetta di Rossini? 
Rossini ti obbliga a studiare, a essere profondo, perché è implacabile! Serve un viaggio senza rete attraverso la sua drammaturgia musicale, bisogna entrare nelle pieghe del significato di ogni momento virtuosistico per dare un senso drammaturgico al racconto. Rossini è facile banalizzarlo, invece servono eleganza e ironia. 

Davide Livermore. Photo © Eugenio Pini
Davide Livermore. Photo © Eugenio Pini

Davide Livermore, tra teatro e cinema 

Perché il cinema lo si ritrova sempre più spesso nelle regie liriche? 
Il cinema è un grimaldello divertente a cui fare ricorso in teatro. Forse anche il più talebano dei melomani ha visto tanti prodotti audiovisivi. Quindi, le tecniche video servono per ribilanciare l’iconografa teatrale, ma bisogna conoscerle per intesserle di quell’umanità che le fa diventare arte. 

Dunque, non basta fare riferimenti all’immaginario filmico? 
Non si tratta di fare citazioni, ma piuttosto di capire cosa succeda nella fruizione del film in sala. La differenza tra cinema e teatro è il montaggio: al cinema si scompare e si riappare, ma non si esce in quinta. Ci sono dissolvenze, campo medio, piano americano, piano sequenza… 

I cantanti lirici, di conseguenza, diventano degli attori? 
Il teatro che mi piace è quello con una recitazione credibile, teatralmente, quindi bisogna inventare nuove convenzioni per eguagliare il cinema: in scena bisogna baciare, scopare, tradire, uccidere meglio che in una serie televisiva o almeno allo stesso livello. 

Come si applica il montaggio cinematografico al teatro? 
Il montaggio in teatro sono le convenzioni. Parte da Aristotele che concepisce il pensiero interno dell’anima e il pensiero dell’azione come oggettivo tempo tra i personaggi. È come raccontare lo svolgersi del tempo. Spesso le arie nella lirica arrestano, sublimano o raccontano uno stato dell’anima essenziale: amore, tradimento, passione, odio, omicidio, follia… 
 
Questo ci riporta all’immaginario cinematografico? 
Per mettermi in relazione a un film non servono citazioni, trovo più bello rievocarne il mondo complessivo. Ma poi devo trovare la maniera di portare tecnicamente le convenzioni del cinema sul palcoscenico. Quindi è il pubblico teatrale che si muove come la telecamera. Nella Tosca scaligera (2019) abbiamo seguito la protagonista in un piano sequenza al contrario, trovando in partitura gli accordi che aprono nuove inquadrature. Quindi abbiamo creato una macchina scenica che consentisse un’adesione profonda al racconto musicale accostandosi alle convenzioni cinematografiche. 

“The Opera!”, il film di Davide Livermore 

Al contrario, in The Opera! è il palcoscenico che irrompe sul set? 
Il film è ripreso in virtual set. In pratica, siamo in un tubo di 18 metri in cui gli attori si muovono realmente dentro allo spazio. È l’applicazione del trompe-l’oeil del Settecento, oggi amplificato delle alterazioni prospettiche che ricordano la Metafisica. 

E l’interazione tra cantanti e attori ha funzionato? 
The Opera! è un film in cui alcuni dei massimi cantanti lirici, come Valentino Buzza e Mariam Battistelli, recitano insieme a Vincent Cassel e Fanny Ardant. Cassel non sapeva che fossero cantanti, ha preso un colpo quando Buzza ha dispiegato la voce. E poi c’è Erwin Schrott, il miglior basso al mondo, che nella parte di Plutone sfodera una mimica al livello di Al Pacino. 

Quale atteggiamento deve avere allora un artista? 
Ogni volta che stiamo in una zona di comfort, smettiamo di essere degli artisti. Serve una concentrazione di virtù di livello assoluto. L’arte serve a fare vedere la parte migliore di ognuno, nel bene e nel male, nella capacità di amore e tradimento, nella bellezza come nella furia ostinata. Si deve raccontare l’uomo fino in fondo! E bisogna anche saper affrontare i terrapiattisti… [prende d’improvviso la lampada dal tavolino e col pugno mima l’evoluzione del pianeta attorno al sole] 

Qui si entra nel teatro politico? 
Il teatro è sempre stato politico! Serve ad aprire finestre d’intelligenza nella testa della gente. Il fatto che il Teatro di Genova abbia due orti i cui frutti vanno alla comunità di Sant’Egidio e a una cucina stellata dimostra la filiazione di quest’idea di politica. Non è un tipo di politica praticata attraverso il leccaculismo partitico… Per i vent’anni dal G8 di Genova ho voluto un cubo bianco sul palco, niente più, ma chi vuole approfondire scopre un QR-Code per scaricarsi la cronaca dei fatti, senza alcun giudizio. 

Questo per uscire da una società faziosa? 
Stiamo sviluppando una società senza dubbi. Si deve subito arrivare al giudizio finale: pollice su o giù. Abbiamo fondato società su dèi invisibili o ideologie altrettanto invisibili, dobbiamo allora farci guidare di nuovo dal dubbio. 

Diego Mantoan 

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Diego Mantoan

Diego Mantoan

Diego Mantoan è professore di storia dell’arte contemporanea all’Università di Palermo. È tra gli autori principali di Wikiradio su Rai Radio3. Scrive su Artribune, doppiozero e Burlington Contemporary. Ha pubblicato con Palgrave, Bloomsbury e Marsilio, oltre a parlare in istituzioni quali Bibliotheca Hertziana, Sotheby’s Institute…

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