Cambiare il modo di abitare i musei grazie alla danza. Il progetto di Virgilio Sieni 

Il coreografo e danzatore Virgilio Sieni ha ideato e da qualche anno porta avanti il progetto Abitare il Museo – Il corpo dell’Arte: un insieme di pratiche mirare a modificare il nostro modo di vivere gli spazi museali all’insegna della “restanza”, contrapposta al contemporaneo “scatta e fuggi”

Il convegno Abitare il museo. Il corpo dell’arte, tenutosi lo scorso 25 novembre 2024 a Cango Cantieri Goldonetta di Firenze, è stato l’occasione per riflettere sull’omonimo progetto portato avanti da qualche anno da Virgilio Sieni, coreografo, danzatore e direttore del Centro nazionale di Produzione della Danza che porta il suo nome (www.virgiliosieni.it). Progetto che, grazie all’elaborazione e sperimentazione di inedite “pratiche”, mira a modificare le consuete modalità di fruizione degli spazi museali, illuminandone i risvolti in termini di benessere individuale e di sviluppo di legami comunitari. Ne abbiamo parlato con lo stesso Virgilio Sieni. 

Quali sono state le riflessioni che l’hanno condotta a ideare il progetto Abitare il Museo – Il corpo dell’Arte? 
Ogni volta ci si chiede cosa vuol dire operare negli spazi museali; cosa significa oggi, nel 2024, pensare ai musei come luoghi di emancipazione e di crescita dell’individuo e come, frequentandoli in relazione alla presenza del corpo messo in ascolto e in opera, possiamo superare l’idea di performance. La performance intesa come processo di creazione che si sviluppa nello spazio museale ricreando l’ascolto nei confronti delle opere e del luogo e coinvolgendo artisti e cittadini, è ben diversa dalla performance utilitaristica che va ad abbellire il cadavere delle mostre.  Cosa significa, dunque, abitare il museo? Esistono molti modi di connettere l’aura dei corpi con il museo: il mio percorso scaturisce dall’attenzione rivolta al gesto e al corpo nelle declinazioni d’ascolto dell’opera d’arte.  

Con quali risultati? 
Ho notato e sperimentato negli ultimi due decenni che quello che avviene attraverso il corpo è un dispositivo tattile ed empatico che consente all’individuo di sostare non solo davanti alle opere, ma di abitare il museo in forma di durata, per lungo tempo. Per me, dunque, è diventato un fatto non solo esistenziale e di ricerca, ma anche politico. Oggi, nel momento in cui non si guarda più l’opera ma la si fotografa e si sbircia attraverso lo schermo dello smartphone, abbiamo scoperto che, attraverso alcuni modi di praticare, di stare, di rendersi consapevoli al corpo, le persone trovano le risorse umane per sostare a lungo di fronte all’opera, ore e ore, con ritorni che fanno emergere interrogazioni, verifiche e scoperte. 

Cosa intende per “pratiche”? 
Non si tratta ovviamente di rendere il museo una palestra o di iniziative del tipo dormire nelle sale. È, invece, qualcosa di diverso, che ha a che fare con il portare le persone, e dunque tutti i cittadini, gli interessabili di qualsiasi età, abilità, fragilità e provenienza, a rivolgersi all’opera quale fonte sorgiva per l’origine di alcuni gesti che introducono il senso di risonanza tra corpo e opere e viceversa. In questo senso si incontrano persone che arrivano perché interessate al gesto, o all’arte, o perché si sentono invitati e accolti col loro corpo fragile a formare una vera e propria comunità d’individui che inizia un percorso di riflessione comune sulla vicinanza, sulla tattilità, sull’abitare. 

Ci spieghi meglio… 
Tutto quello che facciamo attraverso il corpo scaturisce dall’osservazione dell’opera e l’ascolto del corpo: parliamo degli elementi primari, delle articolazioni, della gravità, della qualità degli sguardi per entrare in una forma più ancestrale, aperta e spirituale di spazio, di atmosfera, di aura, di quella che può essere anche una componente non figurativa, erroneamente definita astratta. Il corpo non è mai astratto, semmai non è produttivo e si sospende. Vengono proposte lezioni sul gesto, con folti gruppi di partecipanti, quanti ne può ospitare lo spazio davanti o adiacente all’opera – venti o cento persone – che significa stare con essa e incarnarla elaborando brevi sequenze gestuali che esplorano spazio, luce, oggetti, gesti, sguardi. Far sì che la memoria guidi il partecipante alla scoperta di connessioni e trasmissioni, associando il gesto ad alcuni dettagli dell’opera, l’insieme alla postura, favorendo processi neurali altrimenti preclusi. 

Come? 
Si tratta di un lavoro molto simile all’arte della memoria. Si attivano varie parti del cervello legate alle forme di empatia con l’opera; addirittura, forme di dolore, di amicizia e di felicità. Non si tratta infatti di apprenderne un aspetto nozionistico – la datazione o la biografia dell’autore, approfondimenti che avvengono a margine – ma di cogliere quella che potrebbe essere una dimensione geograficamente emozionale, spirituale dell’opera. Un metodo che serve all’individuo per mappare l’opera e, rammontandola col corpo, portarsela a casa. Tutto questo crea il desiderio di rimanere, di tornare. Così sono nati vari metodi di stare davanti all’opera nel museo: dalla lezione sul gesto a cicli di incontri che durano anche quindici giorni, semplicemente sullo spostamento delle mani dell’Annunciata di Antonello da Messina; oppure davanti al Toro Farnese al Museo archeologico di Napoli; o al San Girolamo della Pinacoteca di Brera, o a un’Ultima Cena in un Cenacolo fiorentino… Apprendendo sequenze gestuali apparentemente complesse, ma che tutti possono frequentare, le persone sviluppano un senso incredibile di amicizia con l’opera che irrora le articolazioni per rivivere la presenza del corpo quale forma d’incontro. 

Come scegliete le opere?  
La scelta si concentra su opere a volte iconiche, altre apparentemente marginali. Da pochi giorni a Firenze abbiamo fatto l’esperienza con gli affreschi del Beato Angelico al Convento di San Marco; così come in passato sono stati sviluppati progetti in relazione all’amatissima Cappella Brancacci con Masaccio e Masolino e sulla Cappella Capponi col Pontormo: tutti questi nascono da forme di amicizia al fine di creare una continuità di sguardi ripetuti nel tempo, tragitti che dall’affresco portano a spazi prove e viceversa, dove i partecipanti ricreano una geografia della città. Molto spesso, invece, sono commissioni, che adoro: ultimamente, per esempio, ho fatto un lavoro su Guercino alla nuova pinacoteca di Cento; o alla Galleria Regionale di Urbino col Barocci e a Bologna sviluppando un progetto sulle tracce di Morandi. 

Le è capitato di lavorare anche con l’arte contemporanea e il non-figurativo? 
Sì, passando da un figurativo più legato alle forme del tempo e del colore come Morandi per arrivare a Twombly e Pascali. Il lavoro sul corpo, d’altronde, non riguarda solo uno sguardo sul figurativo. Relazionarsi alle opere apre orizzonti che svincolano la percezione dall’oggetto per aprirsi a un universo organico intorno alla materia vivente, il vivente generato dagli elementi della natura, dall’aura delle cose. 

Nella presentazione del progetto, Lei parla di “benessere individuale” e “legami comunitari”: in che modo le pratiche che ci ha descritto possono realizzare questi obiettivi? 
Attivano la capacità delle persone di fare comunità: nel momento in cui le persone arrivano spontaneamente scegliendo di dedicarsi a uno studio tra il corpo e l’opera d’arte, si vanno a confrontare con la prossimità, la tattilità, le qualità dello sguardo, la fiducia, rivolgersi all’altro come sostegno e memoria. Tutto questo, in maniera straordinaria, crea molta amicizia e forme empatiche fra le persone: iniziano a conoscersi e a fidarsi l’una dell’altra. Si creano così delle comunità anche “nomadi”, perché molte di quelle persone le ritrovo poi in altri progetti, in altre città, si mescolano.  

Un esempio? 
L’esperienza che abbiamo fatto a Palazzo Te a Mantova per tre anni consecutivi con un progetto intitolato La cittadinanza del corpo: un centinaio di cittadini che, per diversi giorni, dalla mattina alla sera, frequentavano il museo secondo queste pratiche. In un museo che è stato espropriato dal turismo, riportare il cittadino significa ricostruire una geografia emozionale importante. È un fattore politico molto forte ed è anche legato all’emancipazione dell’individuo che riconosce a certi luoghi un valore. Andando con il corpo negli spazi, poi, ci rendiamo conto di come certi allestimenti invasivi con pannellature e altro inibiscono il corpo, mentre altri contesti si prestano alla sosta e al dialogo, presentandosi come soglia meravigliosa dove il corpo cambia. 

Laura Bevione 

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Laura Bevione

Laura Bevione

Laura Bevione è dottore di ricerca in Storia dello Spettacolo. Insegnante di Lettere e giornalista pubblicista, è da molti anni critico teatrale. Ha progettato e condotto incontri di formazione teatrale rivolti al pubblico. Ha curato il volume “Una storia. Dal…

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