Arti marziali giapponesi, danza, valore del corpo. Intervista alla performer Gloria Dorliguzzo

Artista visiva, coreografa e performer appassionata di spada giapponese, Gloria Dorlinguzzo ci racconta in esclusiva la sua pratica artistica unica che unisce linguaggio del corpo, spazio e ricerca della verità

Gloria Dorliguzzo è un’artista che unisce danza, arti marziali e arti visive in una ricerca che esplora il corpo, la verità nel gesto e il simbolismo. Il suo lavoro sfida i confini tra disciplina, materia e movimento. L’abbiamo intervistata per approfondire il suo lavoro e comprenderne i caratteri del suo linguaggio espressivo.

Chi è Gloria Dorlinguzzo

Gloria Dorliguzzo è un’artista talmente fuori dagli schemi, talmente interdisciplinare, che la parola esatta per descrivere la sua pratica deve ancora essere inventata. È una performer, artista visiva e coreografa, che con i suoi “esperimenti” incarna il dialogo tra corpo, spazio e materia. La sua formazione prende avvio dalle arti marzialiche ancora oggi pratica attraverso l’arte della spada giapponese, e si sviluppa in un percorso di ricerca coreografica influenzato da maestri come Yoshito Ohno, Malu Airaldo, Adriana Borriello e Claudia Castellucci. Nel corso della sua carriera ha collaborato con figure di spicco della scena internazionale, tra cui Nikos Lagousakos, Cindy Van Acker, Giselle Vienne e, dal 2018, Romeo Castellucci, con cui ha curato le coreografie di opere come The Third ReichPavane fur Prometheus e Without Title.

Tra riferimenti filosofici e sperimentazioni materiche, il suo lavoro si distingue per l’intreccio tra plasticità del movimento e ritmo compositivo, con un’attenzione alle arti visive che non la abbandona mai. A guidare la sua ricerca, è la verità nelle cose: da qui la collaborazione con performer non professionisti – come nel caso dello spettacolo Dies Irae – e gli scenari onirici e simbolici, che spesso esplorano le potenzialità della corporeità in relazione alla materia e alla memoria.

Le arti marziali per Gloria Dorlinguzzo

Ti sei avvicinata alla danza partendo dalle arti marziali. Qual è il legame tra queste due pratiche?
Non mi sono formata come una danzatrice convenzionale, non ho frequentato accademie classiche, ma sono nata come una guerriera, su un tatami. Ho iniziato a conoscere il mio corpo attraverso le arti marziali giapponesi, che offrono una conoscenza straordinaria del movimento e della fisicità. Ho praticato aikidō per molti anni e ho incontrato persino la mia prima coreografa su un tatami.
Le arti marziali hanno molto in comune con la danza contemporanea, soprattutto dieci anni fa, quando il floorwork e le tecniche di contact improvisation erano molto in voga. 

Come sei passata dall’una all’altra?
Il passaggio dalla marzialità alla danza contemporanea è stato per me naturale: il baricentro basso, i movimenti fluidi, la connessione con il suolo. Tuttavia, con il tempo ho sentito che l’aikidō non mi offriva più una verità nei gesti. Il corpo, troppo addomesticato, si muoveva in maniera prevedibile. Ho deciso di interrompere la pratica da professionista per non perdere l’autenticità del movimento.

Dunque ti interessa l’aspetto dell’imprevedibilità?
Più che altro, mi interessa la verità nelle cose. Continuo a praticare arti marziali, ma ora con la spada. Sono secondo Dan nella disciplina Hoki Ryu, l’arte della katana. Lavorare con uno strumento rigido, che non è duttile come il corpo, mi ha portato a una nuova dimensione di verità. Se non impugni correttamente la spada, se non la orienti con il giusto peso, essa non funziona. Questa onestà intrinseca mi affascina, mentre nella danza spesso si rischia di perdere la verità nei gesti.

La pratica artistica di Gloria Dorlinguzzo

Quali sono i riferimenti teorici, se ci sono, per le tue opere?
Sono profondamente legata alla filosofia e alla storia dell’arte, due ambiti che hanno influenzato il mio percorso. Non ho conseguito la laurea in filosofia per una scelta di vita, ma il mio approccio alla pratica nasce sempre in parallelo con la teoria. Non c’è una cosa prima dell’altra: seguo intuizioni, immagini e poi le approfondisco teoricamente. Il movimento si nutre di concetti, di riferimenti storici e artistici. Per esempio, nel mio lavoro Desire, ci sono molte immagini tratte dalla storia dell’arte, anche se non le rivelo apertamente. Mi interessa che le mie interpreti ne siano consapevoli, per dare un valore ulteriore al loro gesto.

Quindi ti senti vicina anche alle arti visive?
Assolutamente. Non mi piace definirmi con un’unica etichetta, perché il mio lavoro attraversa diverse discipline. Come direbbe Merleau-Ponty, il mondo mi ispira. Ad esempio, è tanto tempo che ho una questione aperta con la pelle – citando ancora Merleau-Ponty –  che è sempre un organo del corpo, che quindi rimane al centro di tutti i miei pensieri. La considero un’interfaccia tra interno ed esterno, un supporto su cui imprimere immagini e concetti. Ad esempio, creo delle membrane derivate dalla fermentazione di un batterio, che poi utilizzo nelle mie performance come superfici materiche, schermi o tele.

La pelle è come una soglia?
Sì. Non la vedo come un limite, ma come un elemento poroso. Le membrane che realizzo possono essere usate allo stato naturale, ancora impregnate d’acqua, oppure essiccate per diventare tele su cui scrivere e disegnare. Questo concetto si sviluppa nel mio progetto Nymphenproject, ispirato al lavoro di Aby Warburg sulla figura della ninfa. Nelle mie opere, però, la ninfa non sono io, ma la materia stessa, che assume una sua autonomia e si trasforma continuamente.

Abbiamo parlato di disciplina, di corpo, di pelle, ma c’è anche la violenza?
La violenza fa parte del mondo e non può essere ignorata. Per me la violenza è nel gesto, nell’intensità dell’azione. Non si tratta di rappresentare uno spettacolo violento, ma di rendere evidente l’energia che si sprigiona nel movimento. Un martello che risuona su un’incudine, una spugna lanciata con forza: sono tutti gesti violenti. In uno dei miei lavori, una cantante era cucita dentro una membrana, il suo respiro progressivamente smorzato dalla materia che la avvolgeva. C’è sempre un rimando alla morte, alla tragedia, all’intensità dell’esistenza.

Sembra allora che parlare di morte per te sia inevitabile.
Per me lo è. Ogni mio lavoro ha un lato oscuro, una componente di impurità e imperfezione che si lega all’idea di morte. Non mi interessa un’estetica luminosa o rassicurante. Sono cresciuta con il teatro di Romeo Castellucci e della Societas Raffaello Sanzio, con cui collaboro dal 2018. Nel mio modo di concepire la scena, devono entrare la verità e la vita, con tutta la loro crudezza. L’arte è porosa rispetto al momento storico che viviamo, e oggi la realtà che ci circonda è profondamente tragica.

Abbiamo parlato di verità, ma nelle tue opere c’è anche tantissimo simbolismo. Qual è secondo te il rapporto tra simbolo e verità?
Per me la verità risiede nel gesto. Un danzatore professionista, per quanto tecnicamente impeccabile, può risultare meno autentico rispetto a un non professionista che abita davvero il simbolo. Nei miei laboratori, lavoro molto sulla condivisione di testi e immagini, affinché il simbolismo emerga in modo naturale. Un gesto compiuto senza sovrastrutture, con un’intenzione vergine, ha un impatto molto più forte. Sporcare un piede di rosso non è un’azione estetica, ma un atto necessario, che assume un significato reale. Lavorare con i performer è molto più complesso proprio perché bisogna smontare schemi e abitudini per ritrovare questa verità nel gesto.

 Laura Cocciolillo

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Laura Cocciolillo

Laura Cocciolillo

Laura Cocciolillo (Roma, 1997), consegue la laurea triennale in Studi Storico-Artistici presso la Sapienza di Roma. Si trasferisce poi a Venezia, dove consegue la laurea magistrale in Storia delle Arti, curriculum in Arte Contemporanea. Specializzata in arte e nuove tecnologie…

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