Il Rigoletto contemporaneo va in scena al Teatro Regio di Torino
Il celebre melodramma verdiano viene riletto dal regista Leo Muscato in una chiave odierna: il giullare protagonista non è più deforme degli altri cortigiani, mentre il Regio si trasforma in una casa degli specchi

Al Teatro Regio di Torino il pluripremiato regista Leo Muscato, che ha recentemente firmato lo spettacolo inaugurale della stagione scaligera, porta in scena una versione attualizzante del Rigoletto di Giuseppe Verdi, un’opera potente, che racconta di un giullare deforme che, vinto da cieca sete di vendetta, perderà il suo tesoro più prezioso…
“Pigliate la più orrida, la più ributtante, la più completa difformità fisica, […] illuminate da ogni lato con la sinistra luce dei contrapposti questa misera creatura, poi gettatele un’anima e ponete in quest’anima il sentimento più puro che possa esser dato ad un uomo, il sentimento paterno”: sono questa le parole con cui Victor Hugo tratteggia Triboulet, il personaggio chiave del suo Le Roi s’amuse dramma del 1832, proibito dopo la prima rappresentazione a Parigi.
Da Hugo a Verdi: la storia del Rigoletto
Come già per Ernani, Giuseppe Verdi sceglie di musicare un’opera di Hugo che diverrà il celeberrimo Rigoletto, debuttato con successo l’11 marzo del 1851 al Teatro La Fenice di Venezia, sotto il giogo della censura imperialregia. La storia di Rigoletto infatti è quella di un personaggio mostruoso e romantico, ultramoderno e dannato, capace di mettere in scacco il politico e di dirci che il re è nudo. Hugo aveva osato mostrare un re libertino, Francesco I, alla conquista della figlia del suo buffone. Come lui anche il Rigoletto è sostanzialmente la storia di una lotta ai ferri corti contro la censura austriaca, che lo blocca immediatamente perché la trama è “un’immoralità ripugnante e oscena”. A dieci anni dall’Unità d’Italia, tra moti rivoluzionari e teorie repubblicane, Rigoletto istiga il pensiero borghese usando una spudorata evidenza: un buffone deforme denuncia l’ipocrisia dei cortigiani, una giovane innocente si sacrifica sull’altare di un potere moralmente abietto, un sovrano libertino si fa beffa di tutto e tutti.













La grande intensità del Rigoletto di Verdi
Rigoletto è una delle opere più intense e rivoluzionarie di Verdi, anche dal punto di vista musicale. Resta stampata nella memoria per la sua semplice bellezza melodica, eppure non ha arie. “Ho ideato il Rigoletto senz’arie, senza finali, con una filza interminabile di duetti, perché così ero convinto”, scrive Verdi. Rigoletto è un personaggio inedito e non può essere musicato in senso tradizionale. Sembra un paradosso: La donna è mobile ormai la canta chiunque, eppure Verdi rivoluziona la forma operistica, rifiutando il modello compositivo dettato dalla “solita forma”, nello schema classico di “adagio” e “cabaletta”. “Sghemba e in flagrante incoerenza”, viene descritta. Verdi usa il recitativo quasi fosse un’aria e l’aria cerca di avvicinarsi con ogni mezzo alla forza espressiva del parlato. Mai un tema è in evidenza ed il tempo cambia continuamente; è una cesura con la tradizione ottocentesca.
La modernità del Rigoletto nella rilettura di Leo Muscato
La modernità di Rigoletto giunge a noi intatta. Il duca di Mantova ben ricorda alcuni potenti di oggi, prevaricatori e leggiadri. È una modalità del potere, quella che mette in opera Verdi, a cui assistiamo nuovamente, che sembra ritornare dopo esperienze di governo più misurate. La seconda era trumpiana sembra annunciarsi come una realizzazione del mito di Rigoletto. A Torino, dove l’opera mancava dal 2019 (allora la regia fu di John Turturro), va in scena in questi primi giorni di marzo la regia attualizzante del premiato Leo Muscato, che immagina una scena girevole fatta di enormi specchi ricurvi e screziati (come quelli dei luna park) per trasferire la deformità di Rigoletto, deprivato della ormai politically uncorrect gobba, sui cortigiani tutti, resi da Verdi con un coro soltanto maschile. I costumi romantici e cromaticamente parchi di Silvia Aymonino e le scene essenziali di Federica Parolini riportano a luoghi sospesi nel tempo, a spazi che sono più psicologici che fisici. La gobba di Rigoletto, che per Hugo e per Verdi era imprescindibile, si diffonde su tutti i personaggi come un olezzo di trepidante corruzione. Rigoletto ha un magnetismo clamoroso: il potere, la dissolutezza, la vendetta e il destino ineluttabile lo avvicinano alla tragedia greca. Le novità di Verdi sono molte: il coro che canta muto, il do ripetuto otto volte per Quel vecchio maledivami, i cambi repentini e laceranti di Cortigiani, vil razza dannata, gli sfondi osceni dei doppi sensi di parole come “chiave” e “tromba”, o del “farti quaggiù beata”cantato dal Duca.

Gli interpreti
Al belcanto di Gilda in Caro nome si contrappongono le “banali canzoni” del Duca. Ma la coerenza drammaturgica nasce da qui. Gilda è una ragazzina colta da un istinto amoroso che non può comprendere ma soltanto seguire, e la voce sottile di Giuliana Gianfaldoni ne è l’espressione più adatta. Il Duca, a cui il tenore Piero Pretti presta una voce candida che sa farsi prepotente, è il suo alter ego maschile: affascinante e sicuro di sé, canta per divertirsi: è l’emblema della superficialità. Ed infine c’è lui, il verdiano baritono rumeno George Petean, dall’impasto caldo e appassionato, che dà vita e collera ad un Rigoletto che per Nicola Luisotti, acclamato direttore d’orchestra esperto di Verdi, rappresenta un’opera “estremamente complessa da dirigere”. Su tutta la serie di stratificazioni del Rigoletto, ancora la voce di Victor Hugo echeggia: “Triboulet ha dunque due allievi: il re e sua figlia. Il re che incita al vizio, la figlia che educa alla virtù”. Così non si può non dare ragione a Luisotti quando dichiara che “l’istruzione di base dovrebbe fare di più per fare conoscere Verdi alle nuove generazioni, perdere un tale patrimonio sarebbe un suicidio culturale di massa”.
Nicola Davide Angerame
Libri consigliati:
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati