Un grande regista di cinema che si cimenta col teatro: lo spettacolo Parallax
Il Teatro Strehler di Milano ha ospitato dal 13 al 15 marzo la prima italiana di Parallax, l’ultimo spettacolo dell’acclamato regista Kornél Mundruczó, autore di una visionaria e potente poetica sospesa fra cinema e teatro

Per la prima volta un lavoro del regista ungherese Kornél Mundruczó (1975) è andato in scena al Piccolo Teatro di Milano, dopo che suoi spettacoli avevano abitato festival importanti quali Romaeuropa, Vie, Colline Torinesi: Imitation of Life (2019) e, poi,Pieces of a Woman (2020). Proprio quest’ultimo, scritto dalla drammaturga e sceneggiatrice Kata Wéber e girato in inglese, aveva raccolto un notevole favore, di critica e di pubblico, nella sua versione cinematografica, presentata alla 77° mostra del cinema di Venezia – successo testimoniato dalla Coppa Volpi attribuita alla sua protagonista, Vanessa Kirby. Cinema e teatro, d’altronde, sono linguaggi non escludenti ma, al contrario, convivono e fluisco naturalmente l’uno nell’altro nella particolare poetica ideata da Mundruczó, come dimostra anche quest’ultimo Parallax, come i precedenti realizzato dal regista con la propria compagnia, l’indipendente Proton Theatre, e basato su un soggetto già sviluppato nel lungometraggio Quel giorno tu sarai (t.o. Evolution, 2021).
Cosa significa “Parallax”
Parallax, in italiano “parallasse”, è un vocabolo tratto dalla scienza ottica e indica il fenomeno per cui un oggetto pare cambiare posizione in base al punto di osservazione. Il regista racconta di avere scoperto questo termine “grazie al thriller The Parallax View di Alan J. Pakula”; e aggiunge che “questo concetto è applicato nelle scienze o nelle arti per mostrare come il cambiamento di posizione dell’osservatore possa modificare radicalmente l’osservazione di un oggetto. Nel rapporto con la storia, tutto dipende dal punto di osservazione!”. Un significativo capitolo della storia del Novecento, la Shoah, è proprio il nucleo dello spettacolo, che indaga come quell’esperienza tragica sia diversamente ricordata, vissuta, giudicata da generazioni successive di una medesima famiglia.

Qual è la trama di “Parallax”
Eva, Léna e Jónás: tre generazioni di una famiglia fatalmente segnata dall’Olocausto, un trauma che nonna/madre, figlia/madre e nipote/figlio vivono in maniera differente, adottando ciascuno una prospettiva, un punto di vista – ecco il titolo – non sovrapponibile a quello degli altri. Lo spettacolo, dunque, è diviso in tre parti, corrispondente ciascuna alla particolare angolazione da cui ognuno dei protagonisti osserva, introietta, elabora, vive, la storia – intima e universale – della propria famiglia.
Concreto filo rosso delle tre parti, lo spazio scenico, vale a dire la cucina del modesto appartamento di Budapest in cui abita Eva. Nel primo atto l’anziana donna, in vestaglia, tenta inutilmente di prepararsi un tè – dal rubinetto non viene più acqua – e, intanto, prende appunti su un quaderno dove fissa tutto quanto le accade ovvero le conversazioni con la figlia. Questa, Léna, irrompe in casa della madre trafelata: arriva da Berlino, dove si è trasferita, per partecipare alla cerimonia durante la quale a Eva verrà conferita una medaglia d’onore in qualità di sopravvissuta ad Auschwitz. Ma l’anziana non vuole andare e fra le due donne ha inizio un dialogo percorso da dolore e rancore ma anche impeto e attaccamento. Nella seconda parte, ambientata qualche anno dopo, vediamo giungere nel medesimo appartamento il ventenne Jónás: la nonna è morta e lui è lì per il funerale. Nell’attesa, però, organizza una sorta di orgia omosex che diviene pretesto non soltanto per rivelare l’incertezza sessuale del ragazzo ma anche per accennare alla dilagante omofobia dell’Ungheria contemporanea. Poche ore dopo la problematica, e per certi versi ambigua conclusione di quell’orgia, arriva anche Léna, dando inizio alla terza parte, più breve: un confronto fra madre e figlio che dichiara implicitamente l’irriducibilità dei punti di vista e, dunque, la non graniticità della narrazione storica.
Com’è costruito “Parallax”
La familiarità con il linguaggio cinematografico del regista è alla base della prima parte dello spettacolo: la scatola scenica risulta chiusa e suddivisa in tre settori. Quanto avviene al suo interno è ripreso in diretta da due videocamere e le immagini proiettate sui due lati, offrendo allo spettatore due differenti prospettive. All’inizio solo quella di Eva e, successivamente, anche quella di Léna. Nella scatola, nondimeno, si aprono progressivamente dei varchi verso la platea – la donna più giovane si affaccia a una finestra – fino all’apertura finale della prima parte con quell’incredibile coup de théatre che, potente e volutamente prolungato, scuote e turba il pubblico. Una vera e propria inondazione, con l’acqua che spacca letteralmente il condizionatore e fuoriesce dall’alto e non solo. Cascate che rimandano alle famigerate “docce” dei campi di concentramento, ma anche a una sorta di palingenesi.
Più tradizionale, invece, la messinscena delle due parti successive, ambientate nell’appartamento di Eva, da cui è defluita l’acqua che l’aveva precedentemente invaso. Un naturalismo solo apparente, tuttavia, come testimonia l’onirica danza finale, quasi un rito, individuale e collettivo, di momentaneo oblio e rigenerazione.

Quali sono i temi di “Parallax”
La memoria del trauma, che passa da generazione a generazione, modificandosi e stratificandosi di nuove, irrisolte, questioni. La relatività della prospettiva storica, ancora più problematica allorché si affrontino eventi storici accaduti meno di un secolo fa. La costruzione dell’identità personale, non incasellabile in un’etichetta, etnico-religiosa ovvero sessuale: “ebreo”; “omosessuale”. Di questo parla Kornél Mundruczó nel suo spettacolo in cui la situazione attuale dell’Ungheria – descritta pur con una certa ambiguità nella seconda parte, in cui si scontrano la pur irrisolta libertà sessuale dell’ormai berlinese Jónás e l’ipocrisia omofoba della società di Budapest – si specchia nel passato delle persecuzioni razziali e nel presente delle iniziative “riparative” – una medaglia al valore, ovvero le facilitazioni per l’iscrizione a scuola del figlio concesse dal governo tedesco a Léna in quanto ebrea… Un’identità disconosciuta e nascosta da Eva, nata ad Auschwitz e fortunosamente sopravvissuta, anche agli esperimenti del famigerato dottor Mengele; ricercata e rivendicata benché per motivi eminentemente pragmatici da Léna; ignorata da Jónás, concentrato piuttosto sul comprendere quale sia la sua vera natura sessuale… Impossibile dunque, sembra dirci Mundruczó, autodefinirsi e conoscersi pienamente – “vittime” noi stessi del fenomeno del parallasse – e, allora, non resta che abbandonarsi, anche solo per poco, a una danza, all’illusione di essere finalmente e pienamente sé stessi.
Laura Bevione
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