Pregressa. La scultura secondo Giovanni Termini
Fino al 25 giugno sarà possibile transitare nella Galleria Renata Fabbri a Milano, dove Giovanni Termini ha reinventato spazi e percezioni. Abbiamo intervistato uno degli artisti italiani più interessanti della sua generazione, grazie alla forza generatrice della sua scultura.
Giovanni Termini (Assoro, 1972; vive a Pesaro) opera confrontandosi costantemente con gli spazi attraverso una scultura che li rivoluziona, consentendo di percorrerli e di alterare la nostra stessa percezione. Per realizzare le sue opere, come nel caso del progetto site specific concepito nella Galleria Renata Fabbri di Milano, adotta materiali solitamente utilizzati per altre funzioni, prendendoli in prestito da altre realtà o luoghi da cui ha attinto parte del suo immaginario. D’altronde la sua è una scultura che riflette anche sui suoi statuti, recuperando materiali che altrove assumono altri significanti e funzionalità.
Partiamo dalla mostra, Pregressa: mi pare che tu abbia lavorato in stretta sinergia con lo spazio espositivo, ribaltando alcuni dei suoi caratteri peculiari e consentendo al pubblico di confrontarsi con la struttura intrinseca di una mostra.
Ho creato una doppia pelle sulla parete che scorre attorno al perimetro di una delle due sale della galleria di Renata Fabbri, ma non è aderente al muro, tanto che l’ombra ne evidenzia la distanza. Perciò ho utilizzato i pannelli che si utilizzano nei cantieri per nascondere il lavoro in corso degli operai; lo spettatore in questa maniera non si troverà fuori del cantiere, ma al suo interno. È lo stesso materiale che utilizzo per costruire le casse delle opere, quindi – così come mi capita spesso – è un qualcosa che normalmente è situato dietro le quinte dell’arte, ma che in questa operazione, diviene l’opera stessa.
Come si procede?
Nella prima sala, il binario delle luci è stato posizionato temporaneamente su dei cavalletti in ferro zincato, quindi sul piano di calpestio, quasi a creare un senso di sospensione, defunzionalizzando pertanto il suo ruolo. Ciò che solitamente ci consente di vedere un’opera, viene utilizzato per costruirne una.
Lo spazio pertanto ti suggerisce una struttura su cui riflettere e in questo modo inviti il pubblico a indagare alcune regole statutarie che lo interpellano e che riguardano quindi la mostra stessa. Questo mi pare uno degli aspetti peculiari di Pregressa.
Ho avuto molto tempo per pensare a questa mostra, che rispecchia anche un atteggiamento filosofico rispetto al “fronte” e al “retro”, al “dentro” o “fuori” come al “sopra” ed il “sotto”. E poi mi interessa molto il concetto di Pregressa, che riguarda, come spesso accade nel mio lavoro, i materiali che conservo in studio, come una sorta di storia o traccia del mio fare. Naturalmente in questo caso è lo spazio stesso a suggerirmi la struttura della mostra.
È positivo che un lavoro di questo tipo sia stato concepito in una galleria d’arte.
Non a caso ho sempre nutrito un certo interesse per la storia de L’Attico di Fabio Sargentini: la galleria deve essere un luogo di sperimentazione e reinvenzione. Penso allo Zodiaco di De Dominicis, ai cavalli di Kounellis, al Rullo compressore di Eliseo Mattiacci. Operazioni straordinarie che hanno rivoluzionato l’approccio di una mostra rispetto allo spazio di una galleria.
Armatura, la tua grande opera concepita nel 2013 per la personale alla Fondazione Pescheria di Pesaro, penso sia una delle opere più rappresentative di un genere specifico del fare scultura. Una scultura che rammenda brandelli di realtà per concepirne una nuova, spingendo un dialogo serrato tra opera-pubblico-spazio.
L’ho considerata una metafora di ciò che stava accadendo: considero il cantiere una metafora della vita, è un luogo in cui ti muovi e in cui possono accadere diverse cose anche molto diverse tra loro. E poi c’è l’interesse per i materiali, che non sono mai riutilizzati, nel senso che li prendo in prestito idealmente, visto che poi sono sempre nuovi.
Per molti anni ho lavorato in un cantiere navale, ed è da questo “fare” che ho attinto la mia poetica. Quel che mi interessava lì dentro era la formalizzazione dei gesti umani, perciò osservavo i gesti ripetitivi degli operai destinati alla costruzione di un’opera che sarebbe diventata funzionale.
La tua base è Pesaro, ma sei spesso in giro per lavoro. Che rapporto hai con quella terra?
Amo la provincia, Pesaro è vicina al mare e poi c’è Urbino a due passi. Per me quindi è una città ideale. Ho poi un ottimo rapporto con gli artigiani, penso che la provincia faciliti lo scambio tra artisti, come è accaduto nel mio caso con alcuni amici.
Pregressa è curata da Alberto Zanchetta. Mi pare la conferma che un rapporto profondo e dialettico fra artista e curatore sia alla base di un dialogo costruttivo.
Ci siamo conosciuti a Milano molti anni fa, aveva visto una mia mostra a Bologna, subito dopo ne ha presentata una a Macerata. In quegli anni eravamo più giovani, gli sono grato perché ha sempre creduto nel mio lavoro.
Torniamo alla tua ricerca e alla mostra da Renata Fabbri. Mi pare che tu abbia confermato un altro valore primigenio della tua scultura: ovvero la scelta dei materiali coerente a un’idea di base.
Penso a nuovo umanesimo. Oggi tutti parlano di impegno sociale, ma mi pare che dietro qualsiasi artista c’è comunque un approccio esistenzialista. L’uomo torna a essere un centro responsabile; ed è questa responsabilità che ne determina la funzione sociale. Ciò accade anche nel lavoro di quegli artisti che possono apparire come autoreferenziali. Ma non è mai solo così.
Quando in galleria ho ribassato l’impianto del neon, per esempio, non mi importava nulla di Dan Flavin. Questo perché ogni scelta ha una funzione ed è frutto di una riflessione profonda. È un problema di metodo, non di stile.
Sono assunti che hai ampiamente confermato nella tua precedente personale, ospitata da Francesco Pantaleone a Palermo alcuni mesi fa, un Grado di tensione utopico che mette in campo la città e suggestioni da Orwell di 1984 a de Chirico.
Anche in quella mostra il progetto che ho realizzato è dipeso dallo spazio. Ho vissuto a lungo a Palermo, respirando il clima della città. In molti palazzi le finestre vengono smontate e le architetture rimangono murate per non consentire occupazioni e perché in questo modo le strutture possono rinforzarsi.
Con quella mostra, che per me ha significato molto, ho indagato da un lato la dimensione umana, dall’altra il classico degrado politico e urbanistico della città italiane. In più ho ribaltato alcune problematiche dello spazio, come le colonne e il battiscopa. L’opera era poggiata sulle quattro colonne, e la riflessione verteva sulle finestre, intese come metaforici punti di osservazione della realtà. In 1984 Orwell descrive il Ministero della Verità, ossia della Cultura, come un edificio privo di finestre, mentre noi artisti abbiamo saputo guardare attraverso le finestre delle Piazze d’Italia di de Chirico. Nella vita non si può non guardare attraverso le finestre. D’altronde nel mio lavoro c’è sempre un dualismo, la mia non è mai una dichiarazione assoluta, è semplicemente una messa in discussione. Mi piace porre delle domande.
Lorenzo Madaro
Milano // fino al 25 giugno 2016
Giovanni Termini – Pregressa
a cura di Alberto Zanchetta
RENATA FABBRI
Via Antonio Stoppani 15c
02 91477463
[email protected]
www.renatafabbri.it
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