Overground (I). Superficie e visibilità
Inaugura il primo capitolo di un nuovo ciclo di riflessioni firmate da Christian Caliandro. Sotto la lente la dimensione dell’overground e la dialettica tra ciò che si vuole visibile a ogni costo e ciò che, invece, resta segreto.
“Don’t worry baby, it’ll be alright
You got the right shoes
To get you through the night
It’s cold outside, but brightly lit
Skip the subway
Let’s go to the overground
Get your head out of the mud baby
Put flowers in the mud baby
Overground”
U2, Zooropa (1993)
L’overground è il luogo in cui gli elementi significativi della vita collettiva e dell’immaginario culturale emergono in superficie, al contrario di quanto avviene generalmente: la vita mentale coincide finalmente con lo spazio fisico; le strutture fondamentali e rilevanti – che influenzano a loro volta scelte, pensieri e comportamenti – divengono perfettamente visibili e non sono più perennemente sotterranee, sommerse. L’overground si sostituisce all’underground.
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Questo è tempo di assiduo ripiegamento.
Questo è un tempo di assiduo ripiegamento.
Questo è il tempo di un assiduo ripiegamento.
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Se mi guardo intorno, vedo tutti questi artisti e questi curatori – tutti noi in realtà – siamo sempre più miseri spiritualmente prima ancora che materialmente, sempre più amareggiati, sempre più disillusi. Eppure, la maggioranza continua a rimanere agganciata attaccata ancorata a questo sogno – essere l’artista famoso, il curatore acclamato e applaudito. Vogliamo essere amati – ma da chi? A chi si rivolge il desiderio inestinto? Anche la comunità attorno muta in continuazione, e già non esiste più – così come il gusto, che mentre lo osserviamo si trasforma in qualcos’altro. La tradizione è biologia – è inscritta nel DNA dei nostri corpi, dei nostri cervelli – ma nonostante ciò, pare che l’incredibile mutazione che stiamo vivendo, e che in effetti è solo al suo esordio, non faccia affidamento su questo elemento, ma sia stata invece capace di estirparla da quegli stessi corpi e da quegli stessi cervelli.
Abiti che non si riferiscono quasi più a nulla, ma che vogliono vogliono disperatamente essere cool senza sapere proprio come si fa, cercando solo approvazione – e questa disperazione non viene neanche minimamente articolata (dunque non può essere cool, in nessun caso) – gli abiti sono poi solo il riflesso di identità sperdute, frammentate, disaggregate – e questa disaggregazione, questa frantumazione, questa dispersione (disconnected… that sense of incoherence is the point) non riesce ancora ad autoalimentarsi, a elaborarsi introspettivamente e a generare identità culturale in evoluzione – rimane invece ferma, statica – con un senso di perdita secca. Quando invece si potrebbero catturare e far fiorire darker corners, more disruptive interjections, more moodiness.
Quando invece si potrebbero catturare e far fiorire darker corners, more disruptive interjections, more moodiness.
Ora, che cos’è che manca? Integrazione – coerenza interna – un rapporto sano e non morboso con il contesto e le circostanze della vita. Piantarla di far finta che ci sia una “carriera” – non c’è alcuna carriera, e nulla che le assomigli nemmeno lontanamente – ed è un bene, sapete perché, perché questo pensiero è arido e impedisce veramente (impedisce da trent’anni) di attivare quel tessuto e quella relazione fresca, vivida con il mondo, con le condizioni attuali e lontanissime del tempo, con l’umanità.
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Roma, Oratorio dei Filippini, 21 settembre 2016. La mia sconfinata ammirazione per Borromini risente in parte anche dell’oblio e del degrado che avvolgono inspiegabilmente, in questi anni, le sue architetture.
La facciata di San Carlino è tutta nera, affumicata, stratificata da ere di smog e gas di scarico – così che quella protrusione morbida sulla linea retta della via ha assunto nel tempo un che di canceroso; la superficie della pietra organica è ormai oltre lo sporco.
Sugli scalini dell’Oratorio cartacce, giornali, lattine, scarti di vario genere e persino inspiegabili pezzi di legno umile sono infilati un po’ in tutti gli angoli.
La sala ovale è inaccessibile, perché pericolante – da una finestra interna che dà sulla prima rampa di scale si intravede un angolo malinconico e desolato di questo spazio abbagliante. La trascuratezza non diminuisce affatto la magnificenza di queste opere – nonostante le renda parzialmente inaccessibili e irraggiungibili – anzi, in un modo abbastanza strano le rende ancora più fulgide.
Nel momento cioè in cui questa architettura rischia di penetrare, in maniera solo apparentemente definitiva, in una zona di marginalità urbana e culturale, si moltiplicano i messaggi metafisici che essa emana. Ogni reale valore più è sconsolatamente in vista più si nasconde – e diventa segreto.
Christian Caliandro
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