Drei, Guerrieri e Ortona. La pittura a Roma
Macro, Roma – fino al 15 gennaio 2017. Il museo capitolino ospita due mostre intitolate a una storica coppia della pittura e a un suo esponente contemporaneo. Alternando percezione, emozioni e indagine sul paesaggio.
Non si può comprendere a pieno la ricerca gestaltica di Francesco Guerrieri (Borgia, Catanzaro, 1931 – Soverato, Catanzaro, 2015) senza tenere in considerazione quella della sua compagna, di arte e di vita, Lia Drei (Roma, 1922-2005). Nonostante entrambi siano attratti dalla multiforme bellezza della natura, solo insieme arrivano a una ricerca qualitativa in cui – come si suol dire – l’insieme supera la somma delle parti. Già dalla metà degli Anni Cinquanta, Lia Drei si dedica a una forma di pittura astratta e informale, portando allo stesso tempo avanti le sue ricerche strutturaliste, sia all’interno del Gruppo 63 (da loro fondato) che nel binomio Sperimentale p. (dove p sta per puro). La loro arte nasce da un processo di sottrazione, nel quale la costruzione e la de-costruzione lavorano sempre in una sorta di interscambio comunicativo tra fondo e figura, tra assenza e luce. Nonostante la loro vicinanza nella ricerca, i due artisti si allontano molto nell’interpretazione. Guerrieri lavora su opere informali e polimateriche. Molto noti sono i suoi Quadri di luce dove i toni utilizzati sono unicamente quelli del bianco e del giallo. Lia Drei lavora invece sulle forme geometriche e sul colore, in un discorso che punta sempre alla sintesi formale. Spazi bianchi invadenti e linee rette (intere o tratteggiate) dove si innestano forme geometriche dai colori molto vivaci. Un’attenzione particolare viene dedicata alla forma triangolare, che diventa un vero e proprio modulo compositivo. La loro arte è “un’ipotenusa d’amore”, dove ogni triangolo è diverso, ogni gesto è condiviso e in uno/due colori si raccoglie il senso predominante di ogni ispirazione.
LA PITTURA DI GIORGIO ORTONA
Sempre di pittura si parla con Giorgio Ortona (Tripoli, 1960; vive a Roma), ma lo scenario visivo cambia. Interessato al paesaggio extraurbano periferico, in particolare a quello della Capitale, le sue palazzine si ergono come una sorta di censimento metropolitano, quasi un’ossessione. Vedute che sono un orizzonte in essere, un cortocircuito che rimanda dalla cartolina al cantiere. Un viaggio che parte da Roma ma che si sposta in Italia (Napoli, Palermo) e all’estero (Il Cairo, Kiev, Nuova Delhi). A dimostrazione del fatto che il mondo –distanze a parte – è un cantiere omologato e globalizzato. La sua pittura è sempre molto dettagliata, i colori pallidi, le figure accennate, gli sfondi incompleti. L’alternanza di toni caldi e freddi segue l’irruenza di un paesaggio abbandonato che, in una sorta di diario mai banale, acquisisce un ritmo compositivo dato dall’alternanza delle costruzioni (finite) ai vuoti (scheletri). Forma, composizione, ritmo. La sua arte è molto figurativa, ma le analogie che emergono nei suoi dipinti riescono, senza pretese dichiarate, a contaminarla con i propri interessi in maniera pluralista e composta. Il richiamo alla musica jazz, l’attenzione maniacale al dettaglio, il neoplasticismo, i diorami. Tutto questo convoglia in ogni singola opera. Un linguaggio pulito, accessibile, evocativo e molto nostalgico. La presa di coscienza che, in una società in continuo sviluppo, le periferie tendono sempre più a diventare centro. Scomparendo. Trasformandosi.
Michele Luca Nero
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