L’audience development e il consumo di cultura
Quali strategie bisogna mettere in campo per incrementare il consumo di cultura nel Belpaese? Forse una delle soluzioni è smettere di considerarla una materia per pochi e ricorrere agli strumenti di comunicazione forniti anche dalle nuove tecnologie.
Recentemente si è assistito a un fitto e folto dibattito sull’utilizzo delle tecniche di engagement e di audience development all’interno della cosiddetta economia della cultura. Il risultato di questo dibattito però è ancora molto incerto, e questo è probabilmente il frutto di un cattivo costume tutto nostrano.
È qualcosa su cui vale riflettere: se per ciò che riguarda il calcio gli italiani sono tutti allenatori, se nella cucina sono tutti chef, nella cultura sono tutti strateghi. Parallelismo arduo, forse, ma quanto mai concreto. La cucina è come un’orchestra: c’è bisogno del primo violinista, ma è necessario che tutti accettino i propri ruoli e che ci sia anche chi rimane sullo sfondo. Volendo perdere la dimensione aulica, in cucina è importante che lo chef possa contare su persone che sappiano accettare il loro ruolo e svolgere “bene” le proprie mansioni. E questo vuol dire che è importante che ci sia qualcuno che è bravissimo a tagliare le cipolle, che non è proprio una posizione “strategica”.
Ritornando all’audience engagement e l’audience development, la questione è più o meno la stessa: in realtà, lo sviluppo di “pubblico” è qualcosa che ha più che fare con le cipolle che con la presentazione del piatto. Audience development sono gli “uffici gruppi” dei teatri, che devono trovare sempre nuovi modi per aumentare il pubblico e “sbigliettare”, o gli stagisti dei musei che stanno lì a scrivere post su Facebook, con l’intento di aumentare i like, e (forse) il numero di visitatori a una determinata mostra.
Perché è importante dirlo? Perché, ci piaccia o no, anche la conoscenza ha bisogno di operai. E anche la conoscenza ha bisogno di persone che accettino il proprio ruolo e lo portino avanti bene.
L’ITALIA E IL CONSUMO CULTURALE
Il nostro Paese vive un periodo drammatico, con anni di crisi economica e sociale alle spalle, e il risultato del “divismo”, in tutte le sue forme, ha portato semplicemente a un aumento della disoccupazione giovanile e a un aumento del gioco d’azzardo (regolarizzato o meno).
La Cultura in Italia si divide tra chi legge e chi no, tra chi consuma cultura (va a teatro, al cinema, ai musei) e chi no. Molto dipende dalla comunicazione. Altrettanto dall’istruzione. Ma attenzione a come si usa questo termine. In Italia (nelle nostre statistiche culturali), vengono ancora identificate come variabili il titolo di studio in relazione al consumo culturale. Quello che stupisce è che queste variabili vengano ritenute valide soltanto in relazione al consumo di cultura. Come se l’identità liquida non ci avesse insegnato nulla. Come se fosse improbabile che un idraulico immigrato di seconda generazione (perché il divismo ha toccato anche questa tipologia di servizi) possa andare al cinema più di un laureato. Ciò è innegabilmente falso.
Istruire alla cultura è soltanto in parte accomunabile a una carriera accademica: istruire alla cultura vuol dire piuttosto incuriosire al punto da rendere quella culturale una categoria di consumo abituale. Vuol dire rendere i musei luoghi in cui i bambini “vogliono” andare, costringendo i “genitori” ad accompagnarli. Vuol dire rendere lo studio della musica divertente (gamification?), vuol dire riuscire a trovare un dialogo con chi si sente offeso dalle opere d’arte contemporanea esposte nei musei (ed essere disposti anche a chiedere scusa, se serve a farlo ritornare).
Invogliare l’acquisto attraverso politiche che sostengono la domanda è solo una “piccolissima” parte di ciò che necessita la cultura: è necessario che quando le persone arrivino, trovino davvero quello di cui hanno bisogno. E, per offrirlo, bisognerebbe in qualche modo sapere quali siano queste aspettative. Allo stato attuale, l’Italia è come un supermercato che fa un’offerta lancio, mettendo un prezzo di un prodotto “noto” molto al ribasso per far affluire gente che, quando arriva, compra il prodotto in questione e se ne va. Il senso dell’offerta lancio (quella in cui addirittura i gestori operano in perdita) è che la maggior parte delle persone associa a quell’acquisto altri prodotti, portando i ricavi totali in aumento. Ma questo forse non l’abbiamo ancora capito.
“Istruire alla cultura è soltanto in parte accomunabile a una carriera accademica: istruire alla cultura vuol dire piuttosto incuriosire al punto da rendere quella culturale una categoria di consumo abituale”.
Ritornando all’audience, la nostra situazione è piuttosto evidente: la cultura è una piccola salumeria di un centro storico cittadino. Pochi clienti, molto profilati, che andrebbero “a prescindere dall’offerta”, semplicemente perché è vicina, o perché è un’abitudine andare lì. Lo sviluppo della clientela a questo punto dovrebbe essere semplice: capire quante persone del quartiere vanno di malavoglia nei centri commerciali e capire quali variabili potrebbero influenzare il loro comportamento.
In altre parole, conoscere chi consuma cultura (e non quanti, e con due anni di ritardo), perché lo fa e in base a quali condizioni potrebbe consumarne di più è solo il prerequisito (anche se per noi è già fantascienza).
La cosa difficile è conoscere chi non consuma cultura, quali sono i consumi prevalenti e quali sono le variabili che potrebbero avvicinare questi soggetti alla cultura.
L’audience development dovrebbe essere quindi semplicemente un’attività da markettari, insomma, ma il nostro divismo ci porta a rintanarci dietro formule e locuzioni strategiche che fanno perdere il contatto con la realtà.
Perché le parole di uno chef valgono poco al ristorante (quando poi paghi il conto), se il soffritto era bruciato.
Stefano Monti
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