L’arte del collezionismo. Intervista a Giuseppe Iannaccone
In occasione della mostra ospite della Triennale di Milano dedicata alla raccolta di Giuseppe Iannaccone, abbiamo ceduto la parola all’avvocato e ripercorso con lui la storia di una passione decennale.
Fino al 14 marzo La Triennale di Milano ospita Arte in Italia negli anni Trenta, un ciclo di incontri a cura di Elena Pontiggia pensato come occasione di approfondimento in relazione alla mostra Collezione Giuseppe Iannaccone. Italia 1920-1945. Una nuova figurazione e il racconto del sé, curata da Alberto Salvadori e Rischa Paterlini, curatrice della collezione, in corso alla Triennale fino al 19 marzo. Tutti i martedì, professori, ricercatori e giovani studiosi ripercorrono alcune tappe fondamentali della storia dell’arte italiana tra le due guerre.
Artribune ha approfondito, assieme all’avvocato Giuseppe Iannaccone, gli snodi fondamentali dei suoi esordi, arrivando a toccare le intime ragioni delle sue scelte, avvenute nell’arco di decenni.
Una volta, ha rivelato che i lavori appartenenti alla sua Collezione di artisti “non allineati”, che l’avevano appassionata verso la fine degli Anni Ottanta, possedevano anche una storia, facevano parte di una comunità. A posteriori, rileggendo questo percorso, è ancora possibile affermare lo stesso filo conduttore, oppure, con il tempo, sono emerse nuove chiavi di lettura?
Rispetto alla raccolta di opere tra le due guerre, il mio progetto non è mai cambiato. Ho raccolto i lavori più importanti di quegli artisti espressionisti che ponevano l’uomo al centro della loro poetica: l’uomo con i suoi capricci, le sue gioie, i suoi dolori, le sue emozioni. Rivisti oggi, ho la conferma dell’esistenza di un filo conduttore che lega i vari gruppi di artisti italiani che, in diverse città del Paese, avevano la stessa motivazione poetica e artistica: colore, espressionismo, verità e libertà nelle scelte pittoriche, ivi compresa quella di guardare all’arte europea.
Si è mai sentito una sorta di custode privilegiato e, allo stesso tempo, responsabilizzato, nei confronti delle vite di artisti di talento, ma, talvolta, decisamente dimenticati?
Assolutamente sì, non c’è dubbio che la mia sia l’unica raccolta che riunisca gli artisti espressionisti italiani degli Anni Trenta, nessun museo e nessuna collezione privata ha mai realizzato nulla di simile. Di ciò sento tutta la responsabilità. Ho voluto raccontare una storia originale ma assolutamente vera e allora non mi posso permettere di sbagliare. Dunque mi sforzo di raccontare una storia con caratteristiche di completezza e di assoluta qualità.
Per quale motivo ha voluto aprire il percorso con L’Attesa di Rosai? Quale chiave di volta contiene?
Innanzitutto L’attesa è un’opera del 1920 e dunque, anche temporalmente, si pone al principio della raccolta, poi bisogna dire che Ottone Rosai è il primissimo tra i miei artisti a indagare la fragilità umana.
Nei confronti dei propri approcci selettivi, lei ha sempre ribadito di essere guidato dalla più pura spontaneità, pur avendo frequentato figure e guide importanti come Elena Pontiggia, Claudia Gian Ferrari e Zeno Birolli. Quale tipologia di dialogo aveva instaurato con loro?
La mia regola, nell’arte, come in tutte le cose della vita, compresa la mia professione, è studiare a fondo con grande impegno, ascoltare con umiltà chi ne sa più di me, ma poi decidere in assoluta autonomia. Come ho scritto anche nel mio volume sulla collezione, io ho sempre discusso d’arte con Elena, Claudia e Zeno, ma poi ho seguito il mio cuore. Ricordo di quando Zeno mi sconsigliò l’acquisto dei Poeti di Birolli sostenendo che avevo già, sullo stesso tema, La Nuova Ecumene. Lo ascoltai con attenzione, studiai i sacri testi, ma principalmente sentii che non potevo rinunciare a quell’opera e così l’acquistai lo stesso. Oggi so che Birolli con quei due lavori, volle realizzare un manifesto del suo credo artistico: colore e poesia! La Nuova Ecumene è il colore, i Poeti parlano di poesia. Dovevano stare assieme e io li ho rimessi assieme come due fratelli.
Potrebbe descrivere alcune caratteristiche del suo trasporto per Scipione? Che cosa l’ha sempre colpita?
Scipione è un grande poeta che ha saputo trasformare la tragedia di una morte precoce e di una malattia senza speranza nell’ispirazione per un’arte nuova, rivoluzionaria e passionale, un’arte unica e irripetibile. Lo ammiro come uomo e come artista.
Dal moderno al contemporaneo, esiste, per il suo ruolo di collezionista, un preciso punto di svolta? Oppure la sua attrazione per la storia dell’arte italiana l’ha sempre coinvolta al punto tale da riuscire a fondere periodi, tecniche, autori in una precisa linea di visione del mondo dell’arte, alla ricerca di un proprio stile?
Nell’arte contemporanea cerco le medesime cose che ho trovato nella pittura degli Anni Trenta: l’uomo con i suoi sentimenti. Ovviamente, nell’arte contemporanea, mi attrae e mi entusiasma scoprire l’animo dell’uomo di oggi, l’uomo che vive le mie stesse emozioni. È per questo che ho sempre collezionato contemporaneamente l’arte degli Anni Trenta e quella contemporanea: la prima rappresenta le mie radici, la seconda i fiori appena sbocciati.
Una volta installata la mostra in Triennale, in completa solitudine, per la prima volta rapito dal colpo d’occhio sull’intera galleria di volti, paesaggi e nature morte, che cosa ha sentito?
Ho provato una gioia immensa, la realizzazione di un sogno di tanti anni e, non mi prenda per presuntuoso la prego, ho avuto la consapevolezza che ho realizzato una raccolta che merita di essere sempre vista da tutti quelli che amano veramente l’arte e, perché no, il nostro Paese e la sua storia, perché davvero questi artisti non hanno nulla da invidiare agli artisti espressionisti tedeschi, al realismo americano o allo stesso gruppo di Novecento Italiano.
– Ginevra Bria
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