Critica viva (VIII). Sopraffazione e finzione
Nell’ultimo trentennio, al mondo dell’arte italiana sono state imposte definizioni e modelli sempre più rigorosi e rassicuranti. Griglie che hanno addomesticato la realtà, semplificandola e rendendola accettabile. Oggi occorre una riconfigurazione dell’orizzonte artistico nostrano dagli Anni Ottanta all’epoca odierna. Per combattere la sopraffazione dettata dal successo e la finzione che ne deriva.
Il mondo dell’arte degli ultimi trent’anni ha la responsabilità di aver rimosso e sommerso alcune delle storie più interessanti della vicenda artistica recente. Cancellandole o ridimensionandole, laddove è stato possibile; fraintendendole e mettendole in burla, laddove non si poteva proprio fare a meno di parlarne. Protagonisti di prim’ordine sono stati così ridotti a gregari, e i gregari, i mediocri, gli irrilevanti sono stati promossi in prima linea. Il mondo alla rovescia.
Questa operazione – ripeto, non casuale ma voluta – era funzionale a percepire e a far percepire l’andamento della storia dell’arte italiana negli ultimi decenni in un modo piuttosto che in un altro. A imporre un modello specifico, definito, banalizzato – piuttosto che nessun modello. (Prendete i casi, certamente diversi tra loro, di Angelo Froglia, Salvo, Montesano.)
Il modello di un’arte comoda, facile, servile, edibile, digeribile, semplificata, categorizzabile e categorizzata – invece che strana, storta, disagevole, indigeribile, scomoda, difficile, complessa, eretica, impossibile da ridurre e rinchiudere entro definizioni preconfezionate.
A parziale risarcimento di quanto avvenuto finora, occorre impegnarsi dunque in un grande lavoro di ridefinizione e di riconfigurazione dell’arte italiana dagli Anni Ottanta a oggi.
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Chi è questo ventenne magrissimo, con la faccia malinconica anche (soprattutto) quando sorride – con i capelli lunghi e un po’ unti o completamente rasati e puliti come un peluche, incazzoso, un po’ timido (e per questo fa lo smargiasso in continuazione), fondamentalmente spaventato di se stesso e incerto su come mettere a frutto le sue doti, incerto perfino se siano veramente doti o non piuttosto difetti (come in fondo ha sempre sospettato) – chi è questo ventenne che mi viene incontro come in una scena di Trainspotting?
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– perché poi nel “successo” c’è sempre una quota, un gradiente di sopraffazione. È inevitabile; è insito nella natura e nell’idea stessa del successo (il successo è sopraffazione): io ho successo, voi no; io sto vincendo, voi state perdendo (io vinco solo se voi perdete); io domino, voi siete dominati. In ogni scommessa vi deve essere la possibilità di vincere allorché si fa la scommessa; non si può vincere quando non si può perdere. (“Regolamento per le scommesse a quota fissa”, Federazione Nazionale Fascista Industriali Spettacolo – UNIRE Unione Nazionale Incremento Razze Equine, Roma, 1938 XVII.) Nel campo dell’arte e della cultura, questa dinamica è sempre problematica. Quota di sopraffazione è anche quota di finzione. Voi pensate magari che siano amene riflessioni condotte su un piano astratto: e no, proprio no. Il “sistema” dell’arte contemporanea (quando potremo finalmente usare un altro termine, meno orrendo, sarà sempre troppo tardi) non mostra le prime inequivocabili crepe… E perché avviene questo? Sempre per lo stesso motivo: finzione. Se tutta intera la baracca si regge sulla finzione, sulla simulazione, per decenni (tranne alcune lodevoli eccezioni, le quali comunque non smantellano la cornice in cui si inseriscono, e invece proverbialmente non fanno altro che confermare la regola), poi arriva il momento in cui la realtà irrompe, con tutta la sua prepotenza ottusità stupidità vitalità autenticità, voglio dire la realtà dei fatti e della storia e del presente che stiamo effettivamente vivendo. Se c’è incompatibilità tra il modo di essere di questa realtà e quello dell’arte, prima o poi questa incompatibilità esonda, esorbita e brucia i ponti. Persino, se volete, i ponti i muri e le catene che esistono – e sono molti, lo sapete –all’interno dei singoli cervelli.
Rimanere agganciati alla realtà vuol dire invece vivere costantemente con il popolo, far parte del popolo, essere il popolo; vuol dire frequentare posti umili, bere e mangiare in posti umili, vagare per strade umili – e non come turisti o peggio come santoni. La distanza non è mai un bene (tranne forse quando abbiamo a che fare con il tempo…). La distanza fra noi e gli altri, la distanza rispetto al mondo che ci circonda e agli ambienti che attraversiamo è sempre e comunque una distorsione interpretativa; ci condanna all’incomprensione, al fraintendimento continuo, a volerci rispecchiare in ciò che abbiamo davanti e a percepire solo quello che presumiamo e pensiamo di trovarci. Ci condanna, cioè, a cercare solo e soltanto ciò che già conosciamo, a non avanzare mai davvero – ma a restare immobili, a non cambiare mai parere e opinione, a non farci persuadere né sorprendere dall’infinita varietà e ricchezza della vita.
Ci condanna a essere spettri.
– Christian Caliandro
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