Sulla ricchezza dei sentimenti morali. Il tuttologo
L’artista Fabrizio Bellomo e lo scrittore Eugenio Vendemiale si interrogano sulla figura del "tuttologo". Guardata con sarcasmo, è da applicarsi, in realtà, a quanti rifiutano le rassicuranti definizioni dei ruoli e gli schemi di appartenenza. Preferendo agire in più campi.
Chi si metta in testa di trattare più materie, oggi, bene che vada passerà per uno stravagante, un picchiatello che – da un momento all’altro – potrebbe mettersi a parlare di scie chimiche. Non gli presterete il vostro denaro, darete per certo che non sarà puntuale agli appuntamenti: fra ammiccamenti e colpi di gomito, gli affibbierete in fretta l’etichetta di tuttologo. La parola è bruttissima, sufficiente immaginarla associata alla propria persona per deprimersi. Formulare una parola del genere equivale a progettare un crimine, così facciamo congetture sulle sue occorrenze, diamo un’occhiata al vocabolario: la boriosa presunzione di sapere tutto – il Devoto-Oli è spietato. Dopo l’ondata di Ismi e Logie degli Anni Settanta, ci viene in mente – molti se ne ricordano – Il Tuttologo, trasmissione di una rete locale presa di mira dalla Gialappa’s, in cui tal Anastasio si abbandonava a monologhi che toccavano i più disparati argomenti, sempre e comunque in modo generico e grottesco. Il Tuttologo d’oggi sembra una figura buona per ridere, e ci vengono i brividi perché conosciamo bene il ruolo svolto dalle risatine, nell’industria culturale dei nostri tempi. Ci vengono i brividi, pensando al concetto stesso di industria culturale, e finalmente ci viene in mente Adam Smith: le sue idee sulla ricchezza delle nazioni, sulla specializzazione del lavoro come condizione necessaria al funzionamento della macchina industriale. “Fate una cosa ma fatta bene, più che tante cose fatte male”: questo ci hanno insegnato. “Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto”: ricorda McLuhan che il monito è alla base della stampa a caratteri mobili, ma è anche frase che occupa tante tabelle educative, affisse nelle fabbriche italiane per indottrinarne gli operai.
IL TUTTOLOGO E LA CULTURA
Se siamo costretti ad alzare le spalle, rassegnati, davanti all’uomo-macchina che abita la fabbrica, obbligato a produrre all’infinito il singolo minimo componente di un insieme che non immagina completo, dovrebbe essere invece più difficile accettare qualcosa del genere per chi produce pensiero, idee, arte. Dovrebbe, ma la rivoluzione industriale ha rivoluzionato anche il modo di vedere il mondo; questa rotazione dello sguardo ci ha portato a credere che occorra specializzarsi, approfondire e scavare in una materia, e sempre più in particolare. Chi oggi creda di poter agire in più campi riceverà lo stigma della mediocrità specializzata: tuttologo. Ognuno con il suo ruolo e un ruolo per ognuno, proprio come delle cose. L’individuo riconoscibile, incasellabile, quindi controllabile e – quantomeno – funzionale. Troviamo l’idea agghiacciante e proviamo a smantellarla. Specializzarsi è buono e sano, e nessuno sarebbe tanto pazzo da affermare il contrario, ma nulla vieta di credere che il pensiero, organizzato attorno a un tema e rivolto ad altri ambiti, possa ricondurre, nella creazione e nella teoria, a quel complesso insieme di sfaccettature che è attributo naturale della nostra mente. D’altronde, non serve ricorrere a De Crescenzo per classificare Leonardo da Vinci fra i grandi tuttologi della vicenda umana: quest’idea è assimilata dalla cultura popolare, lo pensano tutti, con ammirazione. Leonardo, grande genio, è un grande tuttologo, ed è solo una delle figure pronte ad attraversare questi presunti confini dell’arte e del pensiero: Goethe, o Lewis Carroll, Pasolini e Bene nelle loro molte declinazioni, ma anche Paolo Conte l’avvocato o Jannacci il dottore, proprio come dottore era Céline. Lo stesso Adam Smith, prima di dedicarsi alle sue celebri indagini sulla ricchezza delle nazioni, aveva composto una giovanile teoria generale dei sentimenti morali.
LE TANTE SFUMATURE DELLA POLIMATIA
I greci avrebbero usato in proposito un termine neutro, senza alcuna accezione spregiativa: polimatia. La polimatia diviene tuttologia con l’epoca industriale, con la parcellizzazione del lavoro: le estreme specializzazioni settoriali preparano l’affermazione della temuta parolaccia, a tutela della possibilità di individuare e controllare il ruolo di ciascuno. Tuttavia, la rivoluzione digitale – in modo analogo a quella industriale – sembra obbligare a una nuova rotazione dello sguardo: a partire dalla propria struttura, il medium per eccellenza del nostro tempo riunisce tutto lo scibile in un solo codice. Sembra esigere menti interdisciplinari, disposte e preparate a violare il proprio ruolo. A proposito di ruolo: il calcio ha nel fantasista la sua figura polimateica, la più bella da vedere che – negli opulenti Anni Novanta – era scomoda per gli allenatori, inutile per i loro quattroquattrodue. Il più grande calciatore italiano d’ogni tempo, Roberto Baggio, è stato tenuto spesso in panchina dai tecnici sfortunati che lo avevano a disposizione. Fuori dagli schemi, scomodo, Quale sarebbe il suo ruolo? L’onesto e concreto Carletto Mazzone invece dichiarava: “quando è a posto fisicamente è un giocatore infinito”. Turandoci il naso, allora, pronunciamolo senza troppi drammi: tuttologo. Mai concluso, in continua ricerca, l’individuo che non entra per davvero in nessuna casella, schema di gioco, compito da specializzato, che non centra mai l’esatta cella di una griglia. È forse il più vicino all’ancestrale fluire del tutto. Ha sinonimi più nobili – fantasista, ecclettico, poliedrico – ma probabilmente non si curerà di come lo chiamate.
– Fabrizio Bellomo & Eugenio Vendemiale
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