Esprimersi con l’espresso. Gli artisti e il caffè
Fin dai secoli scorsi, la bevanda derivante dai preziosi chicchi ha accompagnato la creatività degli artisti. Da Beethoven ai membri del Futurismo, senza dimenticare gli autori contemporanei, un excursus su un legame dai risvolti inaspettati.
Non è certo una performance artistica il rito che caratterizzava ogni mattina la colazione di Ludwig van Beethoven: la dosatura dei chicchi per prepararsi il caffè. Anton Felix Schindler, pure lui musicista e suo biografo, racconta: “La dose era di sessanta grani per tazza e i chicchi venivano spesso contati con precisione, specialmente quando erano presenti degli ospiti”. Un secolo dopo sono arrivati i futuristi e le loro vivaci cene non prendevano in considerazione le pignolerie di Beethoven, per slanciarsi in voli pindarici non tanto metaforici dove il caffè veniva servito all’inizio del pasto (la “cena a rovescio” del 1910) oppure si accompagnava al salame nel Porco eccitato ideato da Fillia. Ecco la golosa (!?) ricetta: “Un salame crudo, privato della pelle, viene servito diritto in un piatto contenente del caffè espresso caldissimo mescolato con molta acqua di Colonia”. Ma veniva anche portato in tavola il Caffèmanna (formula del futurista Farfa Poeta-Record nazionale): “Caffè d’orzo abbrustolito, raddolcito con la manna. Servirlo caldissimo perché i commensali lo raffreddino fischiandovi dentro ognuno le barzellette più congelanti”. Se è davvero bollente, sarà meglio evitare di usare la Caffettiera per masochisti progettata da Jacques Carelman, una cuccuma il cui beccuccio sta dalla stessa parte del manico, per cui quando si rovescia il liquido caldissimo non si può evitare di procurarsi delle ustioni al braccio.
UNO STIMOLO PER LA CREATIVITÀ
Sarà per gli alcaloidi che contiene o per il suo tosto gusto di tostato: il caffè stimola il sistema nervoso e le idee. Voltaire beveva “quaranta caffè al giorno per essere ben sveglio e pensare, pensare, pensare a come poter combattere i tiranni e gli imbecilli. Sarà senz’altro un veleno, ma un veleno lentissimo: io lo bevo già da settant’anni e, finora, non ne ho mai provato i tristi effetti sulla mia salute”. Il caffè è dunque un coadiuvante alla creatività dell’artista, ma può semplicemente limitarsi a essere un normale liquido marrone, più o meno coprente a seconda della sua concentrazione e densità. Catramoso e nerastro, lascia macchie cupe che, se diluite, possono venir facilmente sfumate verso le tonalità più chiare e trasparenti del beige per ottenere delle forme o addirittura delle immagini estremamente realistiche.
Il caffè inteso come inchiostro è la materia prima utilizzata da Karen Eland, che gioca in punta di pennello con le sue tonalità e sfumature per proporre nuovi e un tantino irriverenti rifacimenti di capolavori celebri come la Monna Latte leonardesca, che regge tra le mani una tazzina con un cappuccino, o la Creazione del caffè, dove nella celebre raffigurazione della Cappella Sistina tra le mani del Creatore e di Adamo stanno una caffettiera e una tazzina. Ma l’artista americana non è l’unica: Andrew Saur e Angel Sarkela-Saur si definiscono “coffee artist” proprio perché da oltre dieci anni hanno abbandonato tempere e acrilici per fissarsi sulle sole sfumature dell’Arabica o del Robusta, le due qualità fondamentali della bevanda. In Italia Bernulia (Giulia Bernardelli) rovescia la tazzina e, servendosi del cucchiaino, trascina la macchia fino a ottenere delle piccole immagini, miniature ricchissime di particolari.
MACCHIE E CHICCHI
Ma si può andare ben oltre fermandosi un poco prima: nel 2006 Cesare Pietroiusti lascia la macchia casuale di caffè zuccherato tale e quale limitandosi a registrare il fatto che si è più o meno forzosamente ripetuto per ben 500 volte, realizzando altrettanti “pezzi unici” su carta Tintoretto da 250 gr/mq. Non è soltanto il caso a creare l’opera, non c’è quell’aura che si diffonde da una performance o il mistero della criptica interpretazione di un evento. La produzione dei disegni è sorta, come un atto naturale, “in un padiglione di un giardino che non esiste più, di una villa che non esiste più. Era il luogo dell’ozio dove ci si incontrava per un caffè, leggere, chiacchierare”. Questo tempietto è denominato Lu Cafausu, che potrebbe significare “falso Luca” oppure derivare dall’inglese “coffee house”. In un luogo qualsiasi, in un giorno qualsiasi avviene qualcosa di consueto, di normale; come la banale conversazione da bar, riuscire a esprimersi con il caffè espresso.
Un altro e differente modo per servirsi del caffè a fini artistici sta nell’utilizzarne i chicchi che, a seconda del grado di tostatura, si differenziano nel colore e quindi possono comporre mosaici con intenti più o meno figurativi. Il più grande, entrato quattro anni fa nel Guinness dei Primati, è stato realizzato dall’artista russo Arkady Kim, che si è servito di 180 chili di caffè (circa un milione di chicchi) per realizzare un murale di 30 metri quadrati al Gorky Park di Mosca. Ma la vera chicca di chicchi è Mekka Mokka di Aldo Mondino: un tappeto da preghiera, rigorosamente rivolto verso la Mecca e provvisoriamente composto di chicchi crudi o tostati (e quindi bicolore) con le frange formate da caffè macinato. Il mosaico non è definitivo, i chicchi non sono incollati a un supporto, per cui l’opera risulta estremamente vulnerabile: non ci si può inginocchiare sopra per una preghiera o per una penitente tortura alle ginocchia…
– Carlo e Aldo Spinelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #35
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati