#presentense (III). I pericoli della cultura
Chi si occupa di cultura viene guardato con sospetto e fastidio dall’humus sociale, perché rappresenta una minaccia alla produttività. E allora viene in mente il punk, ben oltre i confini della musica. Un’attitudine a raccontare il reale in presa diretta, pericolosamente senza filtri o distanze.
In treno da Foggia a Bari, 26 aprile. E in effetti, l’immagine evocata (sottotraccia; estenuata) dai ragazzi nerissimi in cammino ogni giorno sul cavalcavia all’ingresso di Taranto è quella di Zombi 2 (Lucio Fulci, 1979), con i morti viventi sul ponte di Brooklyn come una moltitudine di immigrati haitiani indesiderati. A suo modo una profezia, e una scena che ho sempre trovato molto naturale, spontanea, serena. Un’immagine del futuro sostanzialmente utopica, di una “serena apocalisse” (allegria di naufragi) – così come profetica e serena è la luce che sempre immerge questa scena (con protagonisti ogni volta diversi, ragazzi e ragazze, da soli o in gruppo) – nel sole del tramonto o del mattino presto – nella polvere rossa tossica che colora gli edifici a due passi.
Poi – il modo molto delicato in cui certi cimiteri di paese in Puglia (quello di Trinitapoli, per esempio) replicano il paese stesso. La forma è perfetta, lo “skyline” anche; solo, se ci fate caso, tutti gli “edifici” dei morti sono rivolti verso l’interno. Non esistono facciate che guardano “fuori”, al mondo e alla zona dei vivi. In questo è possibile intravedere certamente una nostra protezione, un nostro metterci per così dire al sicuro, ma anche una sorta di pudore da parte loro – dei morti. (È come se si rinchiudessero nel loro paesino, all’ombra dei cipressi, in una dimensione molto intima e – per noi – scarsamente comprensibile.)
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28 aprile. La cultura è una malattia – un’attività sommamente antisociale, malsana. Pericolosa. Gli individui normali di una società si dedicano alle cosiddette attività “produttive”; gli individui “anormali”, disfunzionali, rotti, scassati si dedicano invece all’arte e alla cultura. Questo è forse anche uno dei motivi per cui la gente (la “maggioranza”) prova generalmente ostilità genuina nei confronti delle occupazioni intellettuali e degli oggetti artistici e culturali “veri” (non quelli finti, che servono solo a decorare pareti o ad abbellire piazze…): perché ne percepisce istintivamente la pericolosità, la minaccia – intesa proprio come minaccia alla perpetuazione della specie.
La cultura è l’attività improduttiva per eccellenza.
Gli artisti autentici (e non presunti) sono sempre individui poco raccomandabili, mattoidi e mezzi delinquenti, maleducati, fastidiosi, paranoici, vanagloriosi, irritanti, eccessivi. E va bene così. Siouxsie Sioux: “Nel momento in cui qualcosa diventa facile da copiare, perde tutta la sua carica di energia”.
(Che cos’è “punk”? Punk non è solo un movimento compreso tra il 1976 e il 1978; punk è un’attitudine – una “disposizione d’animo”. In questo senso, più ancora delle sottoculture precedenti (mod, psichedelia, glam), eredita il ruolo che era stato delle avanguardie “storiche”. L’avanguardia è punk; il punk è avanguardia. Savinio ventenne che suona il piano negli Anni Dieci come un indemoniato. L’avanguardia sottoculturale autentica è fortemente connessa con il REALISMO, fino a identificarsi con esso – realismo inteso proprio come abbattimento di ogni filtro e distanza, e come volontà precisa di costruire una rappresentazione veritiera, un racconto culturale affidabile di che cosa vuol dire essere vivi in un determinato periodo storico.)
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29 aprile. La forza e la raffinatezza di John Lydon oggi – le facce e le espressioni che fa, per esempio, nelle interviste recenti (quando ha appena finito di dire qualcosa di acuto e volutamente oltraggioso, ma con eleganza) – è l’unico che ha sempre portato avanti l’avventura e l’impresa intellettuale punk e post-punk come critica e conflitto sociale, come rivincita della propria classe di appartenenza sul piano dell’arte e della rappresentazione culturale.
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30 aprile. Fuel dei Metallica – di nuovo sulla SS100 per Taranto – e quando i miei amici sono marciti in questo sogno impazzito di borghesia, semplicemente ho cambiato amici – il panino con salame, pomodori e melanzane sott’olio (c’è anche una birra Raffo: ovviamente) che mi ha preparato Luca del bar Old City alle cinque di sabato pomeriggio era una delle cose più buone assaggiate ultimamente, l’olio cola via – tutta l’amarezza e la delusione cola via, l’adolescenza e le risate perdute colano via, ci sono nuove risate – più simili a ghigni veramente, ma più piene, più dense – la sostituzione è avvenuta senza che neanche ce ne accorgessimo, con piena soddisfazione di qualcuno – Alessandro non ha ancora risposto al messaggio (mi chiamerà tra cinque minuti), sto arrivando e mi fermerà al bar delle ragazze (Cibo per la Mente) a bere caffè e a leggere il libro di Marcello Nitti dedicato alla Taranto post-punk (1981-85) – nel frattempo in auto riascolto i dischi dei miei e dei nostri vent’anni. Senza molta nostalgia, ma come scoprendoli e apprezzandoli per la prima volta.
INTERFERENZE…
Il mare di Taranto di fronte al cavalcavia, dove c’è la chiesetta di S. Maria di Costantinopoli, “quella spiaggia una volta silente e melanconica campagna infestata di pirati” (Mons. Giuseppe Blandamura, 1866-1957).
Ma poi tutta questa vitalità adesso, nei trent’anni inoltrati, è al medesimo tempo un dono e uno spreco – un punk o un grunge fuori tempo massimo, in ritardo su tutto, e per questo ancora più interessante – è sempre la condizione che si trova e che ci trova dopo tutte le illusioni perdute e le speranze infrante, ciò che definiamo oltre-il-fallimento – la terra incognita, la zona inesplorata e che funziona secondo le regole e i valori di un mondo sconosciuto…
– Christian Caliandro
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