Il pubblico della cultura. L’editoriale di Michele Trimarchi
Al netto dei sempre più diffusi audience studies, da chi è composto, davvero, il pubblico della cultura? E quali pregiudizi e stereotipi è necessario superare per venire incontro alle sue esigenze reali?
Si fa presto a dire audience. Prima era arnese – temuto e ovviamente corteggiato – della televisione, da un pochino occupa il posto che fu del pubblico, al massimo dei pubblici. La retorica della cultura riflette lo spirito del tempo e rivela complessi d’inferiorità, smanie imitative, tentazioni aziendalistiche. Per promuoverla o svilupparla, come da etichette anche istituzionali, occorre conoscerla.
Che cosa sappiamo, dunque, del pubblico? Non molto, se si considera il poco valore informativo e gli automatismi interpretativi delle solite notizie: anziano, ricco, istruito. Da qui si ricava la percezione che il pubblico della cultura sia omogeneo, perdendo di vista l’inevitabile eterogeneità che lo caratterizza tanto nello spazio quanto nel tempo; chi frequenta musei e teatri, ci auguriamo, è per propria vocazione evolutivo e dunque quanto basta imprevedibile nei gusti e nelle scelte di domani.
Inoltre si tende a considerare questo profilo socio-demografico prevalente come una motivazione di fondo dell’esperienza culturale, con un semplice quanto dissennato ragionamento a contrario sensu: giovani, poveri e poco istruiti non ne vedremo mai, è l’armata degli ignoranti che autorizza facili doglianze contro il web, i social network, lo splatter dei film, la rapidità dei telecomandi, le emozioni a buon mercato delle serie televisive.
OLTRE GLI STEREOTIPI
Manteniamo la calma. Il web è un riflesso del mondo reale, è solo più esteso e accessibile e quindi amplifica quello che avverrebbe in qualsiasi Bar dello Sport; lo splatter e le emozioni sono il glossario dell’opera lirica, in cui avvengono nefandezze non da poco (senza menzogne, tradimenti, invidie, gelosie e relativi sbudellamenti, l’opera sarebbe tediosamente arcadica); la rapidità del telecomando è comoda quando ci si annoia: quanti adolescenti stanno inchiodati per ore appresso a Frodo Baggins o hanno rivisto per decine di volte Harry Potter?
E poi, andando a guardare dentro la cucina, si può dire che in quanto anziano il visitatore ha semplicemente più esperienza e pertanto più desiderio di immergersi nella scoperta della cultura; in quanto ricco gestisce meglio il proprio tempo (gli impiegati e i commessi hanno difficoltà a visitare un museo, dal momento che gli orari di apertura e di lavoro combaciano sadicamente); in quanto istruito magari ha più coraggio per affrontare luoghi spesso cimiteriali e polverosi: ha imparato ad annoiarsi tra i banchi di scuola.
L’IMPORTANZA DEL DIALOGO
Manca del tutto la percezione delle possibili motivazioni, e le poche azioni di proselitismo si affidano a effetti speciali o a minacce e seduzioni a buon mercato: “Se non venite lo portiamo via” era il claim del primo manifesto della valorizzazione, né può convincere il fresco “L’arte ti somiglia”; io non andrei mai a visitare un museo perché c’è il ritratto di un mio presunto sosia.
Il punto dolente è uno: perché si realizzano gli audience studies? I musei non lo sanno, salvo fare quello che sembra doveroso o qualche volta richiesto esplicitamente dal finanziatore pubblico. Se volessimo capire in che modo far dialogare l’offerta culturale con la società dei nostri anni, dovremmo spostare il piano dell’analisi dal profilo socio-demografico agli orientamenti e comportamenti del pubblico, o meglio di ciascun singolo visitatore, in modo da mettere a fuoco quella sequenza soggettiva e cangiante di letture, ascolti, osservazioni, esplorazioni e discussioni che spingono le persone a incuriosirsi cercando nuove esperienze capaci di emozionare, di far riflettere, di mettere in crisi. Se non è per questo, la presenza in un museo è soltanto autocelebrativa, e non ha alcuna ricaduta positiva sul rapporto tra il museo e la società, in quanto quel passante in vena di narcisismo non chiede un dialogo ma uno specchio compiacente.
ORIENTARE L’OFFERTA
Investighiamo sul pubblico, ma solo se siamo disposti a sintonizzare l’offerta al suo desiderio di dialogo, se ci piace l’idea di coinvolgerlo in una narrazione complessa e non nella mera sequenza di oggetti più o meno iconici, se siamo capaci di gestire le risorse del museo in modo versatile ed eclettico. Non dobbiamo piacere, ma condividere. Solo in questo modo il museo diventa uno scrigno familiare e al tempo stesso misterioso. Quanti direttori di un museo si mescolano al pubblico per percepirne le dinamiche, magari ci parlano e lo ascoltano, ragionano insieme ai professionisti che del museo costituiscono la spina dorsale? Quanti musei che abbiamo visitato mantengono un rapporto di scambio e informazione con noi dopo che torniamo a casa? In che modo si attiva una relazione con i visitatori di una volta sola (Notte al Museo ecc.)? Il glossario dell’accesso, dell’inclusione e della condivisione è ancora fermo alla prima pagina.
– Michele Trimarchi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #35
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati