Mono No Aware. Sul cambiamento e la musica jazz
È una retorica pervasiva e martellante, quella del cambiamento. Ma cambiare è una cosa buona di per sé? Qualche spunto sulla risposta arriva da Miles Davis e dal suo giudizio sul free jazz.
La “cultura” è diventata da lungo tempo ormai una faccenda di assessorati e di ministeri e di “esperti”, e questa cultura parla esclusivamente alla fetta di coloro che se la possono permettere, che pagano e che vengono soprattutto pagati per essa – la simulazione è una pellicola invisibile, pervasiva, onnipresente, che dà la misura di quanto per decenni si sia lavorato a rimuovere, a ottundere la percezione, a filtrare, a creare dimensioni di privilegio onirico e di illusione sociale, a separare la gratificazione quotidiana dagli elementi che compongono concretamente lo spazio-tempo esistenziale.
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Compresenza di strutture e di piani – rimorsi e ravvedimenti: strutture parallele, livelli sovrapposti, scale da fare e tetti di cristallo da sfondare. Tutto questo non è una scusa per non cambiare. Il cambiamento è una delle ossessioni maggiori di questa fase: non va più bene la piattaforma tradizionale (qualsiasi piattaforma tradizionale), nel senso che non regge più, anzi diciamo pure che è incrinata e sta per collassare; si avverte il bisogno di una maggiore autenticità e trasparenza nelle pratiche, nei discorsi, nelle politiche, nelle retoriche; poi, però, ci si accorge che anche attorno all’“autenticità” e alla “spontaneità” si può benissimo costruire una retorica di successo. Come se ne esce? Si scava, si ripulisce, si perfeziona, si leviga, si semplifica, si continua a scavare, cercando onestamente la purezza della voce, del pensiero, della ricerca stessa: “Non c’è mai fine. Ci sono sempre nuovi suoni da immaginare, nuovi sentimenti da sperimentare. E c’è la necessità di purificare sempre più questi sentimenti, questi suoni, per arrivare ad immaginare allo stato puro ciò che abbiamo scoperto. In modo da riuscire a vedere con maggiore chiarezza ciò che siamo. Solo così riusciamo a dare a chi ascolta l’essenza, il meglio di ciò che siamo. Ma per farlo dobbiamo continuare a pulire lo specchio” (John Coltrane, riportato da Nat Henthoff nelle note di copertina scritte per l’album Meditations, 1966).
“La simulazione è una pellicola invisibile, pervasiva, onnipresente, che dà la misura di quanto per decenni si sia lavorato a rimuovere, a ottundere la percezione, a filtrare, a creare dimensioni di privilegio onirico e di illusione sociale”.
Mono No Aware: “Esprime, in genere attraverso il simbolismo della natura, il concetto che la vita è bella ma effimera. Letteralmente si traduce con ‘la tristezza delle cose’. Questo valore estetico si ritrova anche altrove – come nella locuzione latina lacrimae rerum, ‘le lacrime delle cose’ – ma è particolarmente dominante nella cultura giapponese” (Kenneth G. Henshall, Storia del Giappone, Mondadori 2005, p. 53).
La dissociazione consiste nell’usare le parole d’ordine concordate e condivise – quelle su cui tutti non possono fare a meno di essere d’accordo – Accoglienza Comunità Inclusione Partecipazione – nel fare l’esatto contrario, e nel non scorgere alcun problema in questa discrepanza. Nel considerare perfettamente naturale, e ovvio, il bipensiero, la distanza tra ciò che si dichiara e ciò che si è, la mancata aderenza tra propositi fumosi e risultati concreti. (E non per una forma di falsità consapevole, ma proprio perché si è smesso di riconoscere la contraddizione in quanto tale, di riconoscerle cioè valore e senso, perché non si è proprio più in grado di vedere la separazione totale tra le aspirazioni e la realtà.)
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Miles Davis, riecheggiando il giudizio di Louis Armstrong sul bebop, negli Anni Sessanta rifiutò categoricamente il free jazz (la “new thing”) e i suoi presupposti, con argomenti sicuramente difficoltosi da accogliere, peraltro tutt’altro che campati per aria: “Tutti cominciarono a dire che il jazz era morto. […] Penso che una parte della promozione del free tra i critici bianchi fosse intenzionale, perché molti di loro pensavano che gente come me stesse diventando troppo importante nell’industria. […] Dopo la promozione delle avanguardie, e dopo che il pubblico le ebbe abbandonate, quegli stessi critici le mollarono come una patata bollente. E all’improvviso tutti cominciarono a spingere la musica pop bianca”. Non è un caso che subito dopo Davis si dedicasse praticamente in solitaria, fino alla metà degli Anni Settanta, nella fusione di jazz e rock nutrita di suoni elettrici, effetti elettronici e registrazioni multitraccia. Stava scegliendo senza opporsi di “naufragare”, stava scoprendo per l’ennesima volta (dopo aver rivoluzionato il jazz in più occasioni) che questo tipo di naufragio – come ogni vero e serio naufragio – nasconde un segreto, comporta una responsabilità molto spesso incomprensibile, e richiede fiducia abbandono sicurezza totali.
– Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #35
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