La sindrome Celantabo. L’editoriale di Renato Barilli
Il termine se l’è inventato il critico bolognese: Celant + Achille Bonito Oliva = Celantabo. Riferendosi a quella sindrome per cui in Italia sono esistite soltanto Arte Povera e Transavanguardia.
Nel nostro Paese si è sviluppata una sindrome per cui sembra che tra il Settanta e l’Ottanta siano esistite solo Arte povera e Transavanguardia, con pochi episodi collaterali e di scarsa importanza. È logico che gli intestatari di quei movimenti, Celant e Bonito Oliva, si freghino le mani dalla gioia, ma mi chiedo a che cosa giovi insistere su un asse del genere a tanti critici, soprattutto della generazione di mezzo. Uso dire che sacrificano a una sorta di “Celantabo”, più che altro per pigrizia mentale. L’acme di una posizione del genere si è avuta nella mostra Ytalia a Firenze, a cura di Sergio Risaliti. Non mi riconosco in quella selezione molto arbitraria: il quadro si dovrebbe allargare con molti altri “aventi diritto”. Qualche prova? In una mostra a Prato, al Centro Pecci, il direttore Fabio Cavallucci mi ha concesso di rifare, quasi mezzo secolo dopo, una mia proposta alla Biennale veneziana del ‘72 dove, sotto il cappello del “comportamento”, esponevo due poveristi come Mario Merz e Luciano Fabro – non ho mai disconosciuto l’importanza di quel movimento – ma subito integrando con altri nomi: Franco Vaccari, che allora e in seguito ha goduto di larga fama, e Germano Olivotto, purtroppo morto poco dopo. E c’era soprattutto Gino De Dominicis, che non ha mai battuto ufficialmente la bandiera di poverista, anche se, bontà sua, Risaliti ha pensato bene di infilarlo nella sua selezione.
“Tanti critici, soprattutto della generazione di mezzo, sacrificano a una sorta di ‘Celantabo’, più che altro per pigrizia mentale”.
Ho parlato di un complesso “Celantabo” da cui sono afflitti i nostri critici ora in pieno esercizio, infatti Risaliti non ha mancato di pescare nella pattuglia della Transavanguardia ma, chissà perché, fermandosi al solo Paladino e ignorando due teste di serie di quel clima revivalista tipico dei nostri Settanta-Ottanta quali Salvo e Ontani, quest’ultimo oggi trionfante, entrambi forti del merito di aver aperto tutto quel clima, quando Paladino e compagni erano quasi in fasce. Averli esclusi da una presuntuosa Ytalia è un gesto gratuito e antistorico. Del resto tento di difendermi come posso, resistendo a questo stucchevole conformismo: in un precedente remake ho ricordato una mia mostra milanese del ’74, la Ripetizione differente, volta a delineare quella stagione in arrivo, dove appunto Ontani e Salvo c’erano, non accompagnati da alcun altro esponente di quel fenomeno in quanto nessuno di essi aveva ancora esplicitato i tratti pertinenti in quella direzione. Per rimanere al fertile panorama espositivo milanese, Palazzo Reale ha ospitato una bella mostra riassuntiva del percorso di Vincenzo Agnetti, un protagonista del clima del ’68 che finalmente oggi viene riconosciuto in tutta la sua importanza. E ancora una volta, è una figura che esula dall’Arte Povera, così come altri personaggi quali, a Roma, Luca Patella, Eliseo Mattiacci, Vettor Pisani. Cari critici dell’età di mezzo, non siate succubi del “Celantabo”.
‒ Renato Barilli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #39
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