Il tempo scorre, il tempo passa
Mentre il tempo scivola via, prende sempre più forma un cinismo culturale interessato solo a ciò che è “cool”. Perdendo di vista il senso critico e dando spazio a una guerra sottile e subdola.
Il tempo scorre, il tempo passa, sopra e attraverso le persone, le esistenze, gli oggetti – c’è qualcosa, tutto di orrendo in questo scorrere inosservato, oggi, perlopiù inosservato, come se di fatto la gente credesse che non la riguarda più, che non l’ha mai riguardata – aver “cancellato” il tempo è un’altra stupidaggine tipica di quest’epoca, un’ulteriore forma di degradazione: proprio l’averlo annullato in infiniti istanti, tutti uguali, è all’origine della devastazione storica, della presentificazione – e della nostalgia.
Non metterti in mezzo, non interporti – non metterti in posa, non recitare – da un pensiero fiorisce un altro pensiero, l’andamento è circolare, fatto di ritorni, ripiegamenti e digressioni – da un’epoca all’altra, da un decennio all’altro giù giù, porzioni sempre più ampie di ripetizioni senza senso e di svuotamenti e di mortificazioni – Anni Ottanta Novanta Zero e Dieci – insisti nel voler vedere l’evoluzione, un’evoluzione – frantumato un insieme, come ricostruire una comunità culturale sulle macerie? Come fare a esprimere ancora almeno la rabbia, il senso di perdita, quando proprio questi sono gli oggetti dell’esclusione e della rimozione, motivi di imbarazzo?
Ciò che era lo spirito dell’avanguardia, la forza motrice, la direttrice principale è divenuto con rapidità incredibile lo scarto. Qualcosa di cui disfarsi in fretta e senza rimpianti. Qualcosa che non ti fa essere alla moda, aggiornato, accettato – qualcosa da sostituire con il cinismo. Il cinismo culturale è la posa di anni e anni: fare finta che nulla conti, e che questa noncuranza sia segno di distinzione, sia cool. Fregarsene, disinteressarsi sommamente, ridicolizzare e ridimensionare tutto. Beh, non è figo né cool né contemporaneo – è agghiacciante.
È la mortificazione definitiva; la rinuncia a pensare e a mettersi in discussione; la distanza artificiale tra “noi” e “loro”, tra “me” e il “mondo”: l’accettazione rassegnata e compiaciuta del non-intervento sulla e nella realtà; l’accettazione acritica, passiva, delle cose-come-stanno, del presente così com’è, come appare e come ci viene consegnato…
“Ciò che era lo spirito dell’avanguardia, la forza motrice, la direttrice principale è divenuto con rapidità incredibile lo scarto. Qualcosa di cui disfarsi in fretta e senza rimpianti. Qualcosa che non ti fa essere alla moda, aggiornato, accettato – qualcosa da sostituire con il cinismo”.
Il tempo scorre, scivola via, e i giovani diventano non-più-giovani, ex-giovani, giovani-vecchi; in un Paese costruito per decenni, pazientemente, scientificamente, crudelmente a immagine e somiglianza degli anziani attuali (di coloro che sarebbero divenuti anziani), dunque un Paese irrevocabilmente e distopicamente anti-giovani adulti, anti-maturità, anti-responsabilità. Dichiaratamente e orgogliosamente squilibrato. Un regime di segregazione di fatto, costruito per giunta nel corso degli anni con la collaborazione attiva e fattiva dei discriminati (a loro insaputa?) – la legge non ammette ignoranza, così come lo squilibrio rende automaticamente i diritti privilegi – e da quel punto in poi un conflitto è tale anche se non viene riconosciuto da una delle due parti che si scontrano, anche se una delle due parti viene progressivamente divorata dall’altra; il conflitto rimane tale, e si sviluppa come tale anche se la retorica lo nasconde, impedisce la sua piena manifestazione. Non è questa peraltro la forma più sottile e terribile di guerra, quella che mentre annichilisce dice “è tutto a posto, va tutto bene, risolveremo tutto, ci stiamo adoperando per migliorare la condizione…”? La propaganda riuscita nega la violenza, nega lo stesso riconoscimento della violenza in quanto tale solo perché essa è camuffata, non ci sono stivali in faccia o sulla schiena, rastrellamenti, pestaggi, ma solo numeri e aspetti economici e vite tranquillamente devastate e disagi distribuiti giorno per giorno, speranze infrante, progetti assediati – ma chi li conta, chi li racconta, a chi interessano davvero?
“Un Sistema è costruito, perfettamente edificato, completo di ogni aspetto e dimensione; un Sistema fatto per mangiare, triturare, spezzare, distorcere da una parte, favorire e proteggere il più possibile dall’altra”.
Un Sistema è costruito, perfettamente edificato, completo di ogni aspetto e dimensione; un Sistema fatto per mangiare, triturare, spezzare, distorcere da una parte, favorire e proteggere il più possibile dall’altra; un Sistema che si cela dentro un altro Sistema, una Realtà (sgradita e sgradevole) dentro una Finzione (gradita e gradevole). L’unica consolazione possibile è che, molto probabilmente e in modi di volta in volta diversi, è stato quasi sempre così: “Credo che i due processi stiano andando in direzioni opposte. Uno consiste in un annullamento, per modo di dire; un uscire-dall’esistenza. È il primo processo. Il secondo invece è un venire-al-mondo. Ma di qualcosa che non è mai esistito prima” (Philip K. Dick, Ubik [1968], Fanucci Editore 1998, p. 94).
‒ Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #39
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