Essere-presenti-scomparendo (II). Forze vernacolari
In uno scenario come quello contemporaneo, in cui l’arte ha perso ogni legame con il presente e a vincere è “lo stare al proprio posto”, forse l’unica via è essere vernacolari. Senza paura di stare sopra o sotto le righe.
“E c’è forza nelle tue parole
Sopra le portate lasciate a metà, i tovaglioli usati
Sopra le cicche macchiate di rossetto
Sopra i posacenere colmi
Sapevi di trovare l’uragano
Dire qualcosa mentre si è rapiti dall’uragano
Ecco l’unico fatto che possa compensarmi
di non essere io l’uragano”.
Massimo Volume, Il primo Dio
(da Lungo i bordi, 1995)
10 novembre 2015. Questi rapporti narrativi, costruiti da un centro esploso – che proprio a partire dalla propria esplorazione, distruzione, devastazione, disintegrazione, suggeriscono il movimento e lo conferiscono agli altri pezzi – sono in grado di innestare in maniera subliminale nello spettatore quella che è, poi, l’idea centrale: casa c’era e adesso non c’è più; al suo posto, scorie e frammenti residui con i quali costruire il tempo nuovo. Una sorta di tristezza produttiva; di malinconia ENERGICA.
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Novembre 2017. Per la maggior parte, impegnati a fingere vite che non hanno e che non potranno mai avere, a imitare modelli irraggiungibili – e che soprattutto non ha più alcuno senso raggiungere ‒, a ripetere il passato in maniera tristanzuola e degradata, senza reale contatto ma con un pauroso ossequio, con tremenda e paralizzante sudditanza. Tutto questo è una condanna di stanchezza, e di irrilevanza…
Collassano gli ecosistemi. Il mondo dell’arte contemporanea si fonda ancora oggi – soprattutto oggi – su assunti e assetti che a ben guardare sono fragilissimi: prima fra tutti, una concezione del presente che sembra aver reciso ogni legame vivo con il tempo, con la storia (ogni legame che non sia puramente retorico, didascalico, archeologico). Una concezione del presente che non esiste. Questa rescissione, man mano che scaviamo, si rivela non un vezzo ma una vera e propria necessità: avvicinarsi alle fondamenta, al flusso profondo, può rivelarsi letale per chi fa finta. Così, ci ritroviamo con un’arte che danza, incolpevole e inconsapevole; che ha allontanato illusoriamente da sé ogni responsabilità, e addirittura ogni idea di responsabilità possa essere parte integrante di quanto si disputa, giorno per giorno; convinta che sia possibile giocare all’infinito, eludere all’infinito il rapporto con la tradizione, con la propria identità, con la propria funzione all’interno di una società: “L’opera non sta mai da sola, è sempre un rapporto” (Roberto Longhi).
“Funzione? Quale funzione? Ma per carità, ancora con queste nozioni tardoromantiche, naïf, terribilmente ideologiche!” E così, la possibilità stessa che l’opera possa effettivamente intervenire sul mondo e sugli uomini, trasformandoli per sempre, è diventata una specie di “puzza”, di marchio infamante che segnala l’espulsione e l’esclusione. “Non ti devi permettere, tu sei nostro prigioniero!” “Fate come vi diciamo, o tornate a casa!” A casa dove? Forse “casa” è proprio il ruolo ritrovato, un’apertura di possibilità che oggi risultano inedite, e prima – non molto tempo fa – non lo erano affatto. Se l’opera, quella vera, è una “lacerazione di tessuti, propri e alieni”, allora persino la lacerazione va ricostruita come apertura, come interstizio, come inciampo nella struttura percettiva di cervelli troppo abituati a essere coccolati, a essere consolati, a essere rassicurati.
Rassicurati sul fatto che questo tipo di funzionamento è l’unico possibile, che il sistema in vigore è quello ideale, che il percorso stabilito e seguito finora non solo va bene, ma è ciò che ci si aspetta per vedere il nuovo, ed essere visti in-quanto-nuovo. E se non fosse così? Perché, considerati gli indizi a disposizione, quasi certamente davvero non è così.
L’arte contemporanea è un universo concentrazionario. Oggi.
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Il tempo è la dimensione che manca per ora all’arte contemporanea – il tempo nel senso metafisico, mediterraneo e meridiano di de Chirico e di Savinio – e in quello più nordico dell’hauntology di Mark Fisher.
Chi sono i “maleducati” italiani? Come la letteratura, l’arte del nostro Paese generalmente mal sopporta quelli che “non stanno al loro posto”, gli irregolari, quelli sopra – o sotto – le righe. Siamo sempre attenti a essere educati, rispettosi, obbedienti al POTERE – che in arte è il linguaggio, lo stile, così come viene codificato prima dalla critica, poi dal sistema e dalla moda. In questo senso, il vernacolare è: fuori dalle regole; che non rispetta le norme; che non sta e non sa stare al suo posto; che mette sempre tutto fuori posto; che esorbita; che è sempre da un’altra parte. Ma autenticamente, sinceramente, con coraggio e sprezzo del pericolo – e non perché “si-fa-così” (perché qualcun altro più potente fa così), per conformismo, perché l’aria tira in un certo modo, per seguire il momento. Per vedere che succede.
‒ Christian Caliandro
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