Fra mito e arte. Tutte le sfumature del bosco
Il bosco come topos simbolico e antropologico. Una lettura trasversale attraverso alcune opere dell’arte contemporanea e della fotografia documentaristica.
“Non meno che le statue divine dove splendono oro e avorio, adoriamo i boschi sacri e, in questi boschi, il silenzio”.
Plinio il Vecchio
È il crepuscolo il tempo più vicino all’ora dell’attesa, il buio spettrale che avvolge gli ultimi sprazzi di luce. Il cielo sublime e atemporale che tanto ha affascinato Giorgio de Chirico e che trae origine dalla pittura complessa di Casper David Friedrich, si evolve e assume significati simbolici, presagiti, sconvolgenti, melanconici. Il colore plumbeo staglia le sagome deformi e scheletriche di quel che rimane della quercia, albero archetipico e totemico consacrato al dio baltico Perkùnas, divinità tellurica di origine slava. Al ciclo della nascita e delle dipartite, la quercia è l’albero che appartiene ai defunti, come osservato nelle documentazioni etnografiche nell’Europa settentrionale e orientale, dove il tronco funge da bara e contenitore per le salme, o come nelle testimonianze folkloriche romene attestate in Morte e Pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria (1958), dove Ernesto De Martino indaga sulla base del funerale del pastore romeno Lazzaro Boia, il trasporto rituale e processionale dell’abete, albero simbolico destinato a essere piantato sulla tomba dell’estinto.
Nell’Abbazia del querceto di C. D. Friedrich (1810), si erige il resto abbandonato di una monofora in stile gotico, immerso nella natura inquieta, in un bosco perturbante che si nutre, nei suoi aspetti socio-antropologici, delle descrizioni letterarie, fiabesche, mitiche e apocalittiche della cultura medievale. L’occhio scorge nel silenzio ancestrale, “nell’isolamento nostalgico” (G. C. Argan), il cimitero antico in cui vaga una processione funesta di monaci che accompagnano le reliquie di un frate nella dimora arroccata.
L’esperienza sconcertante e temibile di incamminarsi nel bosco notturno, metafora dell’inverno e della Grande Madre-Utero, diviene un topos simbolico nell’arte contemporanea in modo particolare nella pittura dei simbolisti come Arnold Böcklin nell’Isola dei morti (1880), di cui si amplia l’aspetto della boscaglia lugubre, dell’acqua putrida e nera preludio all’ingresso nella foresta-cimitero nella quale si innalzano i cipressi del lutto e dove fisso appare il lago corvino che tanto allude alla morte, alla desolazione, allo sgomento e al nero tenebroso.
RIFLESSI DEL MITO
In questi boschi remoti e appartati si annidano le figure archetipiche del folklore, decantate nei miti e nelle fiabe antiche; le antenate benevole che vegliano sui discendenti, custodi della fecondità e della prosperità, ma, soprattutto, divengono selve popolate da megere perfide, come la Baba Jugà delle favole russe, che vola tra i boschi a cavallo di scope-alberi incantati distruggendo i raccolti e seminando miseria. Sono i riflessi di figure mitiche interiorizzate nell’immaginario collettivo che provengono da un pantheon antico, divinità ctonie come Persefone, regina dell’oltretomba ellenico, nella doppia valenza di terribile e benevola, che iconograficamente si tramuta in motivo costante nelle figurazioni degli artisti del rinascimento. È questa la lettura capovolta e complessa dove a emergere sotterraneamente è La civiltà delle streghe di cui Eugenio Battisti (1964) caratterizza i tratti antirinascimentali, lontani da una visione centrica derivante dall’arte e dalla filosofia greca, nella quale si leva invece la presenza costante del maligno, della superstizione intesa come l’irrazionale assoluto.
In questa natura primitiva e custode dei miti e dei riti, Paul Gauguin, in La perdita della verginità (1891), raffigura un paesaggio bretone di rossi accesi e incandescenti, in cui giace una giovane donna nuda allusione al dipinto di Émile Bernard, avvinghiata a una volpe abitatrice dei boschi remoti, che per la sua conoscenza del mondo notturno è stata la fiera prescelta dagli sciamani come indicatrice dei sentieri in foreste e in boschi non accessibili agli uomini comuni.
L’allusione alla perdita della verginità, e quindi a uno status sempre più vicino alla morte, è sottolineata poeticamente dal fiore reciso, dall’autunno incombente, dal paesaggio sanguineo come negli ocra e nelle terre bruciate del dipinto nabis Le Muse nel bosco sacro (1893) di Maurice Denis, riferimento ed evocazione ai temi spirituali, simbolici di una cultura nascosta e ancestrale, popolata da cerimonie metafisiche di angeli e giovani donne in boschi lontani.
FOTOGRAFIA, PERFORMANCE E PITTURA
Le problematiche che affiorano attraverso la fotografia documentarista di Franco Pinna, evidenziano nell’Italia del dopoguerra residui e mescolanze di religioni primigenie e di forme rudimentali di cattolicesimo che generano ritualità e culti specifici agresti in selve e foreste, in cui si erigono le lunghe processioni di maschere apotropaiche, simbolizzazione del male onnipresente enfatizzate nel rapporto senza tempo tra l’uomo e l’animale. Il bosco, così, diventa il luogo della veglia, dell’attesa, dello scambio e del confine come nelle fotografie in bianco e nero di Maria Grazia Carriero, in cui si innalza il documento antropologico e visivo di pratiche rituali nelle terre di Puglia e Lucania, luoghi magici e sciamanici, dove l’uomo contemporaneo, in una sorta di protocollo prescritto dal rito, si identifica con la selva, con la natura impenetrabile fino ad assumere le valenze mostruose e animalesche delle fiere dei boschi o degli alberi rinsecchiti, innalzati sul piano religioso e ritualistico a una processione in onore di un santo protettore, in una data precisa, lontana nel tempo e nel calendario liturgico. Sono i demoni dei boschi che perturbano l’uomo, la sua natura e il proprio habitat; spiriti negativi che si confondono nelle geografie complesse del sud, che vivono nei racconti popolari, nelle ansie obsolete delle donne in lutto portatrici di sciagure, o negli incubi in cui le anime dei defunti ritornano nella terra dei vivi a destare il sonno profondo della notte come nel documento visivo Darkness (2014), raccolto dalla Carriero nel progetto residenza d’artista.
Ma la natura e la terra si fondono, anche e soprattutto, con il corpo della donna-artista, come nelle performance di Ana Mendieta, che tra i boschi e negli alberi imprime la propria sagoma, in una forma simbiotica e fetale che allude alla Madre-terra, attraverso silhouette fatte di fiori, sassi, rami, e sangue vivo, in una vera e propria riflessione antropologica sul “ruolo primario della donna nel mondo” (F. Poli, 2003).
Il bosco assume invece caratteri irrequieti e surreali per Remedios Varo, artista spagnola trapiantata in Messico, che, insieme a Leonora Carrington, è protagonista assoluta del surrealismo femminile di cui Breton accentua i contenuti magici, freudiani, irrazionali. Confabulano nei dipinti di Varo figure antropomorfe di derivazione boschiana, personaggi mitici e magici che vivono nei boschi dell’altrove, sotto un empireo rosso carminio, di boscaglie nude e sterili come l’inverno predetto. Sono questi i demoni del folklore, del focolare domestico, che vivono onnipresenti e si rigenerano nel lutto e nel ricordo; essi risiedono immobili nelle memorie collettive, nei boschi e nei labirinti della mente, di cui l’artista, come creatore, restituisce vive le forme, i colori, le immagini: la fotografia come documento visivo ne attesta il rito, la funzione riparatrice, il richiamo antico nelle selve lontane del mito.
‒ Fabio Petrelli
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