Collaborare è un valore (?). L’editoriale di Irene Sanesi
Quali caratteristiche deve avere la collaborazione per essere efficace? Prima dei contenuti e della progettualità, ciò che conta sono le persone.
Quando qualcosa non va, oppure va storto o non riesce proprio a partire, molti pensano sia colpa dell’assenza di collaborazione. E la collaborazione, si sa, non è questione di contenuti né di progetto: riguarda le persone.
Certo, a volte succede effettivamente questo: posizioni gerarchiche rigide (e qui forse dovremmo chiederci se stiamo pagando il prezzo della scomparsa delle soft skill nella formazione universitaria e post, e nel corso della vita), routine lavorative consolidate (spesso si tende a replicare il modus operandi senza cogliere le profonde, naturali differenze tra ordinario e straordinario), mancanza dei cosiddetti facilitatori nei gruppi di lavoro (un’amica sovrintendente distingue non a caso i partecipanti tra facilitatori e non facilitatori, superando i confini delle singole specializzazioni).
Altre volte è necessario usare il giusto discernimento per individuare la vera collaborazione dalla falsa: quella subdola, apparente, insidiosa, che tende a far cantar vittoria troppo presto o ingenuamente, quando invece gli esiti e le conclusioni sono lontani, finanche impossibili, lasciando in mezzo al percorso inefficienze di tempo e demotivazioni.
Diventa difficile tipizzare le situazioni o generalizzare il contesto collaborativo/non-collaborativo delle imprese culturali, ma siamo sicuri che – leggendo – ciascun operatore sta già ricollegando il concetto a fatti, persone, accadimenti, annuendo con la testa come a dire: “È proprio così, è capitato anche a me”.
“Il punto è: essere chiari fin dove far proprie le idee altrui. Gli anglosassoni utilizzano l’efficace espressione “clarity about where the buck stops””.
Allora, senza voler pretendere di inanellare dei topoi comportamentali positivi o negativi, diventa utile avviare una riflessione su evidenze e coincidenze non sempre edificanti.
La collaborazione non può essere semplicemente consenso, né da una parte né dall’altra; impegna piuttosto una visione multidisciplinare del team. Non è conformismo, pena il rischio di un “pensiero unico” che non genera soluzioni creative. Collaborare a un progetto implica solo in parte adottare uno stile relazionale e accogliente, perché il punto è: essere chiari fin dove far proprie le idee altrui. Gli anglosassoni utilizzano l’efficace espressione “clarity about where the buck stops”. Voler collaborare a tutti i costi può rivelarsi un errore, così come non tutte le situazioni si prestano e vengono sopravvalutate: “Collaboration is suitable for certain tasks and unsuitable for others”.
Essere consapevoli del proprio pensiero, conoscere profondamente il senso della misura (e quando è colma), dare valore al tempo delle persone e al proprio, avere obiettivi chiari: con queste premesse la collaborazione diventa un valore.
‒ Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #39
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