Il tatto che resta. L’editoriale di Marcello Faletra
Nulla, oggi, si lascia più toccare, accarezzare, piegare, respingere, modellare, percepire. Il digitale ha smaterializzato l’esperienza. Cosa ci stiamo perdendo?
Al pari di altre sparizioni già annunciate e consumate, l’esperienza per contatto rientra tra le forme di conoscenza a rischio. Un’antropologia e un’estetica del tatto, oggi, è pressoché impossibile. Il dominio sui sensi effettuato dalle nuove tecnologie digitali è senza appello. Lo specchio non è più il segno del corpo trasfigurato in immagine. La mano non si forma più in relazione all’oggetto di lavoro. Ne Il crudo e il cotto, Lévi-Strauss osserva che i grandi cambiamenti sono dell’ordine del dominio. La scomparsa del contatto è il sacrificio collettivo (globale) in nome del feticcio digitale. Ieri il contatto aveva il suo doppio nell’artefatto e lo specchio era la fragile illusione di un’esistenza presa nella seduzione dell’immagine. Nulla, oggi, che si lasci più toccare, accarezzare, piegare, respingere, modellare, percepire. La smaterializzazione dell’esperienza vaporizza la mano tesa verso il contatto col mondo, come l’ultimo gesto di vita prima di irrigidirsi mortalmente. Il contatto era l’originale, il primum – i sensi alla prova dell’esperienza. Anche l’errore svanisce con la scomparsa del contatto. Costituiva un insegnamento al negativo. Col digitale l’errore è bandito alla stregua di un crimine. Crimine contro la perfezione digitale. Si profila un mondo privo di corpi e sensi ma popolato di visioni celibi, come i dispositivi celibi – ma ancora tattili – di Duchamp, il quale celebrò l’errore di cui il Grande vetro fu oggetto. L’errore in Duchamp metteva in gioco una rappresentazione drammatica dell’esistenza: il desiderio e il suo oggetto.
“Anche l’errore svanisce con la scomparsa del contatto. Costituiva un insegnamento al negativo. Col digitale l’errore è bandito alla stregua di un crimine. Crimine contro la perfezione digitale“.
D’altra parte, anche per un istante il contatto ci fa contemporanei: materializza la storicità individuale che salta fuori nel rapporto tra mano e oggetto. Mentre il flusso virtuale ci rende intemporanei – senza memoria. Il corpo (e la sua storia) diventa il nostro referente perduto. Ma il tatto che entra nel morphing numerico, in questa compressione ed espansione digitale della storia, è quello che esce dall’esperienza – come s’è visto con le mostre virtuali di Klimt e van Gogh. Una specie di irrefrenabile blob virtuale. Catalessi del reale, analessi del virtuale. Resistenza (tatto) o sottomissione alla tecnologia? Su questa divaricazione si gioca un segmento decisivo del nostro rapporto con l’arte. Storie viventi e simulazioni. Artisti-artigiani e idolatri della tecnica. La separazione fra arte e vita imposta dalle tecnologie informatiche che si basano su modelli di simulazione pone gli artisti di fronte a una scelta radicale: mettersi dalla parte del crimine, cioè dell’errore, del fallimento, contro il dogma della perfezione digitale; oppure sottomettersi a esso.
‒ Marcello Faletra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #40
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