Essere-presenti-scomparendo (IV). Il nuovo e l’Io
Oggi il nuovo è sinonimo di “scomparire”. È un qualcosa che spezza gli schemi, specie quelli della visibilità a tutti i costi, vero e proprio marchio dell’epoca attuale.
… Mio zio dal notaio che ‒ nel pieno di una discussione che io reputo abbastanza seria sulla questione generazionale in Italia ‒ mi dice: “Lo faccio per provocarti, e tu ci caschi sempre”. Nah. Quindi secondo te io sono uguale, tale e quale a dieci, venti, trent’anni fa? Forse il problema è che questi baby-boomer non percepiscono proprio il cambiamento, la trasformazione che riguarda tutte le cose e quindi anche le persone; sono, in questo senso, rotti. Quello che è accaduto allora è il trasferimento mostruoso di questo problema, di questa disfunzione, di questo difetto percettivo sul terreno sociale.
“Non fatemi discendere amici cari / fino all’ultimo gradino / della poesia sociale. / Se l’uno è poca cosa il collettivo / è appena frantumazione e polvere, niente di più. / Se l’emittente non dà che borborigmi / che ne sarà dei recipienti?” (Eugenio Montale, L’obbrobrio, in Quaderno di quattro anni).
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Le cozze arrostite durante i turni di notte all’Italsider, negli Anni Sessanta; la tuta che si squaglia, e le scarpe che si sciolgono per la temperatura troppo elevata, mentre Bà M. e gli altri pulivano la… Le condizioni disumane, unite a un certo umorismo contadino e al fascismo “bonario” (!) di quest’uomo che è sempre stato simpatico in maniera piuttosto inquietante. L’Italsider è un simbolo di Taranto e della sua provincia proprio perché forse non è stata raccontata quasi mai in questi anni anche nei suoi tratti surreali oltre che drammatici, nei suoi sprechi, le storie per esempio di operai-contadini senza addestramento che cascano per imperizia e ignoranza – stesso periodo ‒ nelle vasche di ghisa fusa a milleduecento gradi, e il particolare grottesco della cassettina portata poi ai parenti con le “ossa” tintinnanti dentro, ma non è vero niente perché a milleduecento gradi non rimane un bel NULLA di un essere umano. Questo vuol dire che la retorica impedisce sempre – ed è inevitabile, a un certo punto – di cogliere il lato umano di faccende come queste, la vita che non si fa afferrare mai, che sfugge sempre, la vita ottusa stupida appiccicosa, la vita incomprensibile e caotica e magnetica, la vita come metallo fuso nell’altoforno che non si lascia avvicinare né maneggiare, ma solo contemplare e lavorare a distanza (sempre a rischio della propria incolumità, beninteso)?
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Che cos’è allora il “nuovo”, e come funziona davvero.
L’idea che alla sua comparsa debba necessariamente destare rifiuto violento e aggressivo nella maggioranza non soddisfa del tutto.
Perché il nuovo, se realmente tale, spazza via gli schemi precedenti in modo pressoché istantaneo; riarticola il contesto, ed è capace di ridefinire il modo in cui percepiamo il mondo. Certo, questo non avviene in un attimo, e nello stesso attimo per tutti, ugualmente, indistintamente: ma è un processo, una sorta di convincimento collettivo. Quando qualcosa di nuovo appare – ripeto, qualcosa che sia effettivamente nuova, e che non reciti semplicemente quella parte, che non “faccia-finta-di” ma che funzioni pienamente come tale ‒, qualcosa che prima non esisteva e che non è mai esistita in quella specifica forma, sprigiona una potenza tale da dover essere riconosciuta PER FORZA a qualche livello, sia dagli informati che dai profani. La forma esce da se stessa, diventa altro, invade gli altri territori, le altre identità.
“Qualsiasi pretesa io possa avanzare sull’originalità della mia narrativa è solamente il risultato di questo mio strano background: fondamentalmente io che lavoro in modo inefficiente, con strumenti difettosi, in un ambiente in cui non ho abbastanza conoscenza per comprendere tutto. Come se si mettesse un saldatore a disegnare vestiti” (George Saunders).
Il nuovo, oggi, vuol dire SCOMPARIRE.
Essere presenti scomparendo.
Proprio mentre tutti gridano ossessivamente IO IO IO, sperando di essere percepiti, di essere notati, di essere ammirati, di essere, sperando di essere – scegliere di essere. E l’esistenza coincide con la sparizione, con l’assenza: scomparire dai radar malati e corrosi che certificano la presenza con i like, con i post, con i selfie, con i commenti – con Io… Io… Io aggiunto sotto qualunque argomento e contenuto, “la penso così perché IO ho fatto questo”, “infatti è giusto perché IO una volta ho scritto questo”, e “non a caso c’è questo MIO progetto” – al mondo non interessano i vostri commenti i vostri pensieri i vostri progetti – neanche i miei, se è per questo. A nessuno interessa niente – se non IO IO IO.
Una delle cose che meno sopporto di questo presente – un tempo abbastanza disgraziato e disperato, eppure così ricco di promesse – è il desiderio smodato, famelico di uniformare tutto, conformare tutto, rendere uguali ed equivalenti idee posizioni ricerche.
“La poesia non è fatta per nessuno, / non per altri e nemmeno per chi la scrive. / Perché nasce? Non nasce affatto e dunque / non è mai nata. Sta come una pietra / o un granello di sabbia” (Montale, ASOR, in Diario del ’72).
‒ Christian Caliandro
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