Grandi eventi e sponsor. L’editoriale di Stefano Monti
Quando si parla di sponsorship e grandi eventi spesso si finisce in un ginepraio. Soprattutto se si nominano le organizzazioni culturali e creative. Ecco qualche spunto per recuperare la bussola e guardare al futuro
Da oltre vent’anni, l’unica innovazione che sembra davvero esserci stata nel rapporto tra cultura (in senso ampio) e impresa è rappresentata dal meccanismo della “sponsorship”, al punto che persino l’introduzione di meccanismi di defiscalizzazione (Art Bonus) paiono inefficaci rispetto al modello “pubblicitario”. Questo perché il meccanismo della sponsorizzazione è semplice: se finanzi (economicamente o tecnicamente) un dato evento, un numero di persone assocerà al tuo brand una sensazione piacevole, raggiungendo un posizionamento nell’immaginario (e magari aumentando un po’ le vendite).
Oggi però, anche grazie alle potenzialità dei “nuovi sensori” (Internet of Things), la logica alla base della sponsorizzazione potrebbe sempre più riguardare il territorio e meno “gli eventi”.
Cosa significa? Significa che una determinata “strada” cittadina potrebbe essere “sponsorizzata” da una determinata azienda che, in cambio della cura del verde pubblico, ha la possibilità di inviare a tutti i device che transitano nei pressi di determinati “hotspot” dei messaggi personalizzati. Se questo trend (che in alcune zone del pianeta rappresenta già una realtà) dovesse confermarsi, l’interesse da parte delle imprese a investire in “sponsorship” per la cultura tenderebbe chiaramente a diminuire.
Come potrebbero dunque le organizzazioni culturali e creative sopravvivere? La risposta è ovviamente aperta, ma assisteremmo a una serie di fenomeni. In primo luogo, quello dello sponsor territoriale si costituirebbe, da un punto di vista economico, come un fenomeno concorrenziale che, in quanto tale, implicherebbe: una concentrazione dei grandi player; una sempre più attenta misurazione degli impatti; una perdita di sponsorizzazioni per quelle organizzazioni meno competitive sul mercato. Probabilmente si assisterebbe anche all’emersione di una serie di professionisti in grado di “guidare” le imprese a investire in sponsorship sempre più mirate.
“Si potrebbero, infine, sviluppare modelli di business completamente nuovi spinti dall’esigenza di sopravvivere in un contesto mutato, innalzando il livello di produttività media delle organizzazioni”.
In seconda battuta o, come si dice nel gergo tecnico, nel medio periodo, questo potrebbe infine portare le organizzazioni culturali e creative a sviluppare una serie di nuove competenze e modalità con cui cercare di attrarre finanziatori privati esterni: potrebbero, ad esempio, cercare di coinvolgere (realmente e non soltanto sul piano teorico) le imprese nel processo produttivo, inserendole all’interno di decisioni strategiche, definendo insieme obiettivi e modalità di coinvolgimento del pubblico. Potrebbero davvero sviluppare un processo di audience development, stimolate dal fatto che i finanziamenti sarebbero proporzionali al numero di persone coinvolte. Si potrebbero, infine, sviluppare modelli di business completamente nuovi spinti dall’esigenza di sopravvivere in un contesto mutato, innalzando il livello di produttività media delle organizzazioni.
In questo contesto si assisterebbe, senza ombra di dubbio, anche a fenomeni meno desiderabili, soprattutto per quelle organizzazioni che reagirebbero in modo miope e inerte al cambiamento. Ma è pacifico che organizzazioni di questo tipo muoiano. Soprattutto se, come ora, vengono avvisate in anticipo.
‒ Stefano Monti
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #7
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