Fluttuante & ancorato (I). La verità del bianco e nero
Il poeta irlandese Brendan Kennelly suggerisce: “Se vuoi veramente arrivare lì dove la scrittura vive, scrivi come se fossi morto”. Benissimo. Proviamo.
“2 ottobre 1985. Se la bomba atomica scoppiasse di prima mattina mettiamo alle cinque, mi troverebbe sveglio e intento a guardare alla televisione. Dormo poco, da cinque a sei ore per notte e, aspettando di alzarmi, per mezz’ora o un’ora guardo al ‘Videomusic’, le cui immagini in qualche modo si accordano molto bene con l’idea di una fine del mondo ballata, cantata e suonata. Il ballerino-cantante-suonatore che, con la bocca spalancata a gridare con enfasi le sue canzoni, con le due mani impegnate a strimpellare freneticamente il suo strumento, con le spalle e le anche scosse violentemente dal ritmo, mi si presenta in primi piani ossessivi, mentre intorno a lui e alle sue spalle succede di tutto e il contrario di tutto, è un personaggio emblematico del nostro tempo (…) e quello che gli succede intorno e dietro le spalle è nient’altro che la sua vita quotidiana, frantumata ed esplosa, cambiata in sogno e magari in incubo, raccontata per fulminee illuminazioni e pur sempre animata dai ritmi del rock. È una vita quotidiana povera e umile, suburbana ed emarginata: il surrealismo che la sconvolge e vi inserisce una atmosfera onirica, riesce ad essere insieme provinciale e kitsch; ma l’effetto è pur quello di suggerire l’idea del disimpegno e dell’attesa danzante e suonante di qualche cosa di molto simile ad una imminente apocalisse in formato ridotto” (Alberto Moravia, L’inverno nucleare, Bompiani 1986, pp. 110-111).
Questa attesa si trova anche nel primo video musicale di cui ho memoria: quello degli A-HA, con il cantante che entra ed esce dal fumetto per salvare la ragazza, mentre i cattivi li inseguono armati di chiavi inglesi e occhialoni. Ricordo il senso di minaccia incombente (accresciuto dall’esaltazione per quella musica così nuova), e la fascinazione provata per questo andare sognante avanti e indietro tra due mondi – la realtà a colori e l’immaginazione disegnata in bianco e nero, lo scarto, il dinamismo, Take oon meee… ‒ era bello a cinque anni, in Cima alla Collina, desiderare di avere quello stesso taglio di capelli e quel giubbotto.
(Robert Longo invece collega la sua passione per il bianco e nero al fatto di essere cresciuto, da bambino, in un mondo in cui le riviste avevano le copertine a colori – Marilyn, Kennedy – poi le aprivi e se volevi capire ciò che stava accadendo in Vietnam, o guardare un servizio sulle prostitute di Calcutta, bum, le immagini erano tutte in bianco e nero: allora ha cominciato forse inconsciamente a pensare che il bianco e nero corrispondesse alla verità; al cinema, sempre nel corso degli Anni Sessanta, è accaduta un po’ la stessa cosa.)
La linea verde della palestra della scuola in quello che oggi è un parcheggio. L’edificio, la “Dante Alighieri”, non è stata demolita: è crollata, alla fine degli Anni Ottanta. Per fortuna, noi (dico tutti i bambini che frequentavano le elementari in quel periodo) non ci entravamo da due o tre anni. Facevamo scuola di pomeriggio, nelle aule della scuola media – lezione con il buio, uscire con le luci accese da bambini non ha prezzo, perché ha un senso avventuroso unico – e questa inversione/invenzione di abitudini in tenera età, questo essere sbalestrati negli equilibri quotidiani fin da piccoli può aver influito, penso. È una di quelle cose che poi, una volta cresciuto, ti rendi conto di come possa aver avuto un impatto significativo sul tuo modo di considerare la realtà.
Per esempio: questa sensazione (nettissima; è scomparsa solo a – brevi – tratti per poi ricomparire e riemergere sotto altre forme) di non riuscire propriamente a fingere che tutto sia così facile e scorrevole come sembra essere per GLI ALTRI; che sia così immediato e indolore – o anche solo: possibile – tenere ogni cosa, e ogni aspetto, sotto controllo…
“Ai critici che mettono in rilievo il quadro patologico dell’industria culturale è molto facile osservare che essi stessi sono coinvolti nel sistema, e ne sono, anzi, parte necessaria e insostituibile. Se si rendessero conto che la loro opposizione è prevista, accettata e persino richiesta dai quadri del sistema (l’attuale sistema neocapitalistico) ad essi non resterebbe altro partito che il silenzio. (…) Dentro il sistema o fuori del sistema il risultato sarebbe identico: l’arte concepita come un lusso riserbato a pochi e tollerato dal sistema o dal non sistema: e, di fronte, la produzione di massa regolata da criteri puramente utilitari. (…) Ed ora, per concludere, vorrei dire a chi ha avuto la pazienza di leggermi: se volete fare la rivoluzione, provatevi a farla, ma non confondete le carte e ammettete che l’arte non è di primaria importanza per l’uomo, e che in ogni caso la cultura di massa è quella che veramente conta. Se non volete giungere a questa logica conclusione, dovrete ammettere che nel segreto tessuto della storia le lacerazioni e i dissidi sono più importanti e più veri delle ricuciture e dei rammendi. È quello che hanno sempre affermato gli artisti. Il loro torto, però, è di pretendere di inserirsi con ogni diritto in un ordine che li rifiuta” (Eugenio Montale, Colpa del sistema?, “Corriere della Sera”, 10 maggio 1964, pubblicato in Auto da fé, Mondadori 2016, pp. 335-337).
‒ Christian Caliandro
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