Grandi mostre. L’editoriale di Antonio Natali
Quando si parla di “grandi mostre” una domanda è necessaria. È lo Stato che dovrebbe garantire eventi espositivi di rilievo o il testimone deve passare ai privati?
Alla metà del mese d’agosto del 2017 è morto Carlo Del Bravo, storico dell’arte non convenzionale e per conseguenza appartato. È stato maestro severo, ma generoso, all’Università di Firenze. Con lui si sono formati tanti giovani, che in seguito hanno preso vie diverse; tutti però segnati da un magistero che aveva badato a instillare curiosità intellettuale e spregiudicatezza critica. Biasimava le prezzolate perizie attributive e pertanto, contrariamente ai più, non ne faceva. Diffidava delle mostre e perciò – a differenza di chi oggi le strapazza e poi le fa – non ne curava. Andava tuttavia a vedere quell’esposizioni votate a materie che lo attraevano, portando quasi sempre con sé i suoi studenti; e, quando lui non poteva accompagnarli, l’invitava ad andarci da soli, preannunciando loro che poi glien’avrebbe domandato un giudizio. I giovani ne tornavano sovente insoddisfatti (anche per essere un po’ compiacenti con lui, che sapevano diffidente per natura). Non di meno poteva (raramente) capitare che gli riferissero d’aver visto una bella mostra. E lui subito chiedeva: “Avete visto una bella mostra o una mostra di begli oggetti? Capirete che la differenza è sostanziale”. Aveva ragione. Con l’età e con l’esperienza m’è venuto naturale dare un seguito a quel suo ragionamento, aggiungendo di mio questo pensiero: “Per metter su ‘una mostra di begli oggetti’ basta essere potenti. Per fare ‘una bella mostra’ bisogna essere anche un po’ sapienti”. Ne parlo volentieri – proprio qui – perché questo spazio è riservato alle “Grandi mostre”; e già quest’abbinamento sarebbe in sé un invito a una riflessione, almeno sull’aggettivo. Nella nostra stagione, spaesata e conformista, sono gli strumenti della comunicazione a dettare nomi, argomenti, titoli e susseguenti consensi. Chi venga accusato d’allestire rassegne d’arte puntando sui soliti nomi eclatanti, non è raro si difenda dicendo che dà alla gente quello che la gente chiede. Risposta non solo volgare, ma anche ipocrita; giacché ognuno sa bene che la gente chiede quello che da lungo tempo e con messaggi martellanti s’è voluto chiedesse.
“Si può viceversa pretendere che sia lo Stato a ordinare nei suoi musei (specie quelli più ricchi) mostre che propongano contenuti nuovi e artisti ingiustamente negletti. E tanti ce ne sarebbero”.
Sarebbe invece onesto e anche appropriato rispondere che la crescita culturale del popolo, la sua formazione, la sua educazione, sono compiti specifici e precipui dello Stato e non del privato. Dal privato non si possono pretendere esposizioni su artisti e argomenti capaci d’educare e però non in grado di garantire un ritorno economico. Sarebbe bello; ma non si possono pretendere. Si può viceversa pretendere che sia lo Stato a ordinare nei suoi musei (specie quelli più ricchi) mostre che propongano contenuti nuovi e artisti ingiustamente negletti. E tanti ce ne sarebbero. Basti pensare che fino al 2015, in Italia, non s’era mai ordinata una rassegna d’opere di Piero di Cosimo (pittore liricamente eccentrico, fra i più grandi del nostro Rinascimento), né mai, parimenti, era stata fatta una mostra di Gherardo delle Notti (che pure è uno degli artefici più famosi e di piglio più fiero della sequela caravaggesca). E invece lo Stato – abdicando ai suoi doveri d’istruzione e snaturando il significato più nobile della “valorizzazione” – rincorre il privato nella ricerca frenetica del successo economico, attingendo da feticci abusati e da immagini ruffiane. L’esatto contrario dell’educazione.
‒ Antonio Natali
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #8
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