Dalla tela alla pellicola. I film di Luchino Visconti
Dalle tele ai romanzi, quali fonti tematiche e figurative hanno influenzato i capolavori del maestro del cinema italiano?
Intellettuale poliedrico e dal grande impegno politico, Luchino Visconti (Milano, 1906 ‒ Roma, 1976) si è dedicato con estrema duttilità alla regia teatrale e cinematografica, ricercando per la messa in scena sul palcoscenico come davanti alla macchina da presa il perfetto connubio tra mimesis del reale e sua sublimazione estetica, tra verità e bellezza. In particolare, nella sua filmografia, sia in costume che ambientata nella contemporaneità, molteplici sono gli influssi che ne determinano la forma come il contenuto, non limitandosi solo alla tradizione letteraria e drammatica, ma risentendo anche del forte ascendente della produzione pittorica del passato e più recente. Determinante in tal senso è l’istruzione varia e attenta trasmessagli dai genitori, Giuseppe Visconti, discendente dei signori di Milano, e la borghese e pragmatica Carla Erba, i quali educarono il giovane Luchino alla musica, alle lettere, al teatro e all’arte, fornendogli un bagaglio culturale essenziale per il suo futuro. Ancor più, un ruolo decisivo giocò Jean Renoir, conosciuto a Parigi grazie alla comune amica Coco Chanel e con il quale collaborò in La scampagnata (Partie de campagne, 1936), nella cui équipe compariva come stagiaire accessoiriste. Da un lato dunque tale esperienza fu fondamentale per la sua formazione politica, ponendolo in diretto contatto con il Front Populaire, dall’altro gli vennero trasmessi dall’autore francese non solo l’approccio realista, che poi Visconti avrebbe tradotto nelle poetiche neorealiste, ma anche la propensione al pittorico, che in Renoir si esprimeva con la passione per le tele impressioniste e ottocentesche.
Fin dal suo esordio alla regia con Ossessione (1943), Visconti dunque guardò non solo ai classici veristi e naturalisti, ai recenti romanzi e ai film americani e francesi, ma anche a un modello figurativo. Se infatti il soggetto, un amore proibito che portava addirittura all’assassinio, era liberamente tratto da Il postino suona sempre due volte (The Postman Always Rings Twice, 1934) di James M. Cain, altrettanto importante fu il ruolo svolto dai quadri di Renato Guttuso. Tale influsso è percepibile già in apertura, nel lungo movimento di macchina che spazia per la cucina in cui si trova la protagonista, Giovanna Bragana (Clara Calamai); l’occhio della telecamera si sofferma su di piatti e bottiglie di guttusiana memoria, traducendo con incredibile concretezza e in pochi dettagli l’opprimente mondo in cui è immersa la donna e di cui è prigioniera. L’attenzione ossessiva per gli oggetti quotidiani catturati con cruda fedeltà, come nelle opere dell’artista, era allora mirata a raccontare secondo quanto da Visconti stesso scritto su Cinema, “storie di uomini vivi nelle cose, non le cose per se stesse”. Tale orientamento, d’altronde, era concretizzazione del medesimo credo antifascista e marxista, che accomunava i due ingegni e che trovò poi massima espressione in La terra trema (1948).
Il capolavoro indiscusso del Neorealismo, similmente al predecessore, si rifaceva a una fonte letteraria, I Malavoglia (1881) di Giovanni Verga che, seppur assai precedente rispetto al libro di Cain, soddisfaceva i medesimi criteri di impegno politico per cui era prioritario l’ancorare la finzione filmica ad ambientazioni e fatti concreti. Indubbio è che le pagine verghiane fossero ambientate nel passato, eppure erano contraddistinte da quella narrazione corale e verista che Visconti e i suoi colleghi della rivista Cinema auspicavano, incentrata sul popolo e sulle sue miserie. Tuttavia, anche quivi coesistono con l’auspicato realismo diverse suggestioni pittoriche, rimandando a Gustave Courbet nei paesaggi marini, o agli esponenti della pittura seicentesca meridionale, quali Recco, Ruoppolo e Ribera, nella raffigurazione della dura vita dei pescatori della siciliana Aci Trezza. L’autore si approcciava allora al neorealismo secondo la sua personalissima visione, conferendo alla materia statuto artistico.
La pittoricità delle pellicole viscontiane non si limita alla produzione degli Anni Quaranta, ma si estende a quella in costume. Ciò è valido innanzitutto per Senso, opera che causò non pochi attacchi da parte della critica del tempo perché tacciata di eccessivo formalismo; Luigi Chiarini su Cinema Nuovo asserì addirittura che si trattasse di un vero e proprio tradimento del Neorealismo. Vero è che il film, basato anch’esso su un soggetto di matrice letteraria, l’omonimo racconto breve di Camillo Boito, è contraddistinto da una forte attenzione estetica e da un legame diretto con il melodramma, che d’altro canto costituisce l’ouverture stessa.
Il film si apre infatti con la rappresentazione del verdiano Il trovatore alla Fenice di Venezia, durante la quale un gruppo di patrioti antiaustriaci manifestano contro il dominio straniero, introducendo sin da principio il contesto storico, così come il tono generale. Forte è altresì il legame con la pittura ottocentesca, da cui sono desunti diversi modelli. Anzitutto, in maniera più libera è ripresa, nella composizione e nella disposizione dei personaggi, La toilette del mattino di Telemaco Signorini (1898). Tuttavia, nel quadro, ambientato in una casa di tolleranza, un gruppo di ragazze s’intrattenevano con i primi avventori; scelta peculiare, la sua rielaborazione filmica, al contrario, è collocata nell’alloggio dei soldati austriaci e proprio questi, insieme alla contessa Livia Serpieri (Alida Valli), prendono il posto delle donne, creando un netto contrasto con l’iconografia originale. Diretto è poi il richiamo a Il bacio (1859) di Francesco Hayez, replicato nella sequenza ambientata nella Villa di Aldeno, durante un incontro clandestino tra Livia e Franz Mahler (Farley Granger), un fascinoso ufficiale delle milizie austriache che l’ha sedotta. La citazione è quivi inserita in un momento di svolta fondamentale, in cui la protagonista si abbandona definitivamente alla travolgente passione, che porterà lei a tradire la causa risorgimentale rubando i soldi dei compagni e lui a corrompere un medico per comprarsi il congedo dalle armi, infine alla sua fucilazione per diserzione.
In ultimo, allo stesso modo di Senso, anche Il Gattopardo (1963) trae spunto dal connubio letterario-pittorico e dalla tematica risorgimentale. Tratto similmente da un romanzo, quello omonimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, l’utilizzo di un preesistente modello visivo si discosta però in parte dal predecessore, divenendo, come suggerisce Antonio Costa, funzionale alla narrazione stessa. Il rimando al celebre dipinto Garibaldi a Palermo (1860) di Giovanni Fattori nella scena di battaglia in cui le truppe garibaldine invadono la città siciliana, o la ripresa nella sequenza del picnic a Donnafugata di Le Dejeuner sur l’herbe (1866) di Claude Monet, costituiscono allora rielaborazioni prive di rigidità che, pur mantenendone alcuni dettagli, o la medesima tavolozza, declinano l’immagine iniziale allo sviluppo nel tempo e nello spazio, dandole nuova forma. Perfetto esempio è proprio il quadro di Monet, di cui sono richiamati la struttura, diversi particolari, quale il grande telo bianco disteso a terra, o la posa e i colori degli indumenti della donna seduta a destra e dell’uomo in fondo vestito di scuro, ma ogni elemento originario è disposto nello spazio in maniera dissimile. Così, più che a un vero e proprio tableau vivant, si può pensare qui, come in generale in molta della filmografia viscontiana, a una messa in scena altamente estetizzata che ricorre alla pittura come cedimento al senso del bello, riscontrabile fin dal periodo neorealista, ma che diviene addirittura imperante nei film in costume.
‒ Sabrina Crivelli
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