Gibellina, cinquant’anni dopo
Il racconto dei giorni tragici che seguirono il sisma del 1968 e la successiva ricostruzione di Gibellina, attraverso i prestiti di musei e archivi. In una mostra a Palazzo Sant'Elia a Palermo curata dalla Fondazione Orestiadi.
La notte del 15 gennaio 1968 alle 3 una scossa, di magnitudo 6,4 e lunga 12 secondi, colpì la Valle del Belice cancellando, come un soffio di vento su un castello di carta, interi centri delle province di Agrigento, Trapani e Palermo.
Il 16 gennaio 1968 Leonardo Sciascia su L’Ora dedica la prima pagina a “quelli che vivono nelle case di gesso e ci muoiono, quelli cui soltanto restano gli occhi per piangere la diaspora dei figli, pulviscolo umano disperso al vento dell’emigrazione e che lo Stato soltanto pesa nella bilancia dei pagamenti internazionali; quelli che ancora faticano con l’aratro a chiodo e col mulo; quelli che non hanno né scuole, né ospedali, né ospizi, né strade. E al Presidente della Repubblica che oggi è qui sentiamo di dovere dire che egli rappresenta un paese tremendo, dilaniato da contrasti e ingiustizie (…). E che la Sicilia stanca muore giorno dopo giorno anche senza l’aiuto delle calamità naturali“.
Da poco la televisione era entrata nelle case e fu il primo terremoto vissuto collettivamente. I filmati Rai testimoniano, insieme alle foto dei fotografi accorsi (Enzo Brai, Nino Giaramidaro, Melo Minnella, Nicola Scafidi, Letizia Battaglia), come su di un’isola già gravata si abbatte il peso della ricostruzione dopo il sisma. Centinaia di morti, migliaia di feriti, circa 90mila gli sfollati. Molti emigrano, tanti restano nelle tendopoli poi baraccopoli. Negli Anni ’70, circa in 50mila erano ancora nelle baracche, le ultime in eternit furono smontate nel 2006. “La burocrazia uccide più del terremoto“, scrisse Danilo Dolci facendo riferimento alla lentezza con cui arrivarono gli aiuti. Il mondo della cultura, invece, gli intellettuali e gli artisti si mobilitano da subito, firmando appelli, mettendo a disposizione in ogni modo il loro contributo. Una stagione sociale dell’arte contemporanea che, successivamente, non ha più avuto eguali. Negli anni che seguirono il terremoto, il sindaco Ludovico Corrao cominciò la sua battaglia contro il mal governo e le speculazioni della mafia, a favore di una città da costruire insieme agli artisti, che molti osteggiarono e che tanti altri amarono: Gibellina Nuova.
RICOSTRUIRE CON L’ARTE
“Venite a Gibellina, facciamo crescere i fiori dell’arte e della cultura nel deserto del terremoto, del destino, dell’oblio“, disse Corrao invitando i più noti nomi dell’arte e dell’architettura contemporanee che, spinti dall’istinto solidario del tempo, parteciparono attivamente alla ricostruzione. Il Gruppo Forma (i cui esponenti, Accardi, Consagra, Sanfilippo, erano della zona), Burri, Schifano, Pomodoro, Paladino, Rotella, Cascella, Uncini, Melotti, Schiavocampo, Staccioli, Mendini, Isgrò, Venezia, Purini, Thermes, Vigo, Scialoja, Angeli, Quaroni, Beuys, Wilson, Long… sono solo alcuni dei nomi che hanno lasciato opere a favore di una nuova idea di città per cui l’uomo potesse dedicarsi, non solo alla sopravvivenza, come era stato per l’entroterra siculo fino ad allora, ma anche alla bellezza.
Consegnando il progetto della Stella, la Porta del Belice, nel 1977, Pietro Consagra disse che quello era il simbolo dell’ornamento come aiuto a stare al mondo. Mentre Alberto Burri raccontò: “Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento“. Riannodando il sottile filo tra vita e morte, tra Gibellina Vecchia e Gibellina Nuova, attraverso due delle più simboliche opere che rappresentano quanto accaduto: un sudario funebre bianco sulle ceneri e la celebrazione della rinascita sotto una nuova stella. Di queste e di altre opere di architettura si ritrovano in mostra progetti, modellini, foto, insieme alla voglia di andare per le strade di Gibellina a rivederle in scala reale.
Un enorme cavallo nero della Montagna di Sale di Mimmo Paladino, terza grande opera simbolica della ricostruzione insieme alla Stella e al Cretto, campeggia nel cortile di Palazzo Sant’Elia, non uno di quelli travolti ma uno di quelli in piedi, un sopravvissuto, uno di quelli che si è rialzato. La prima volta che Paladino progettò l’opera fu proprio per Gibellina, nel 1990, faceva da scenografia a La Sposa di Messina di Friedrich Schiller, rappresentata tra le macerie di Gibellina Vecchia e il Grande Cretto di Alberto Burri che nel 1985 aveva cominciato a ricoprirle. Oggi l’opera sovrasta le colline di Gibellina Nuova, accanto al Baglio di Stefano, sede della Fondazione Orestiadi che al ciclo di Oreste, al teatro di Eschilo, deve il suo nome, perché al primo uomo della storia che si era sottomesso alla giustizia di un tribunale, Ludovico Corrao, avvocato, si era ispirato. Giustizia, cultura, teatro e arte rappresentarono le fondamenta della nuova città. Il teatro fu vissuto come momento di rifondazione di valori e di aggregazione dei saperi, come raccontano le opere per la prima rappresentazione dell’Orestea di Emilio Isgrò e Arnaldo Pomodoro. A mettere in scena le tradizioni popolari furono cuciti i “Prisenti”, lunghi drappi portati in processione durante la festa di San Rocco, ricamati dalle donne di Gibellina e progettati, tra gli altri, da Alighiero Boetti, Carla Accardi, Michele Canzoneri, Sami Bhuran, Nja Mahdaoui. Tra le opere più recenti che guardano al presente e al futuro, l’inedita installazione di Mustafa Sabbagh, http502:bad gateway (2017), il video Tierra sin males (2011) dell’artista statunitense Susan Kleinberg e la foto di Adrian Paci Home to go (2001), che affrontano i temi dell’emigrazione, del nomadismo, dell’identità.
PAUSE SISMICHE
Nel 1988 ancora Sciascia raccontò, “Io ricordo le macerie, il fango, l’oscurità, il battere della pioggia sulle tende, la febbre che era negli occhi dei sopravvissuti, una sera di vent’anni fa. Ricordo la veglia che, sotto il segno dell’indignazione, abbiamo fatto due anni dopo quello sciagurato avvenimento e resta indimenticabile il discorso di Carlo Levi tra le luci vacillanti. Lo Stato italiano non era pronto né incline ad accogliere un’istanza di ricostruzione che non fosse una ricostruzione della miseria (…). Vietata l’arte, vietata la bellezza (…) che qui a Gibellina ha trovato un centro di resistenza“. Di quella notte racconta, trascrizione fedele per immagini, l’opera di Renato Guttuso, La notte di Gibellina. La lentezza con cui sono arrivati i soccorsi, le case, il completamento del Cretto (iniziato nel 1985 e concluso nel 2015), la manutenzione delle opere… dopo cinquant’anni è ancora desolatamente la stessa, ma questo dimostra il fallimento di alcune politiche regionali e nazionali che si sono succedute nell’ultimo mezzo secolo, non quello del progetto Gibellina che, al contrario, è ancora oggi esempio di resistenza.
La mostra è realizzata grazie all’unione dei prestiti della Fondazione Orestiadi, del Comune di Gibellina, del CRESM, della Rai Sicilia, di Rai Teche, dell’Archivio del Giornale di Sicilia, del Comune di S. Margherita di Belice e del Museo della Memoria. L’opera Pausa Sismica è ripresa da una installazione creata dal duo svedese Bigert & Bergström nel 1992 per la mostra Paesaggio con rovine a cura di Achille Bonito Oliva (direttore delle Arti Visive per la Fondazione Orestiadi), andata distrutta ma nuovamente realizzata per essere collocata, alla fine dell’esposizione, all’ingresso della città di Gibellina, come originariamente pensato dai due artisti. Ricorda a tutti che viviamo di pause tra una sequenza sismica e l’altra, come dimostra un’attitudine specifica dell’arte contemporanea di produrre continue fratture, mediante la creazione di opere che modificano l’assetto iconografico dell’arte precedente.
‒ Mercedes Auteri
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