Fluttuante & ancorato (IV). Il classismo
Il poeta irlandese Brendan Kennelly affermava: “Se vuoi veramente arrivare lì dove la scrittura vive, scrivi come se fossi morto”. E la rubrica di Christian Caliandro evoca questo intento.
“L’arte è buona quando muove dalla necessità;
questo tipo di origine ne garantisce il valore, e nient’altro”.
Neal Cassady
Jack Kerouac e On the Road (1957) – il libro fu vissuto come un tradimento, e anche un po’ un furto, da Neal Cassady (Dean Moriarty/Cody Pomeray) – non solo le loro storie, le storie vissute insieme, ma proprio l’idea di raccontarle, e il modo, il linguaggio – lo stile (On the Road è dunque un riflesso, lo specchio di un ALTRO momento originario e creativo, intraducibile, un tradimento necessario, e la costituzione di un altro piano di lavoro, di pensiero, di esistenza che proprio per esistere deve discostarsi dalla partenza) – tutto era iniziato infatti con la famosa lettera di Cassady, la Joan Anderson letter del 1950, una lettera incendiaria che poi Kerouac usò come modello, trasformandola – e ogni innovazione (brutto termine odierno per dire la lacerazione, lo scarto, la divisione) ne sacrifica inevitabilmente un’altra, parte cioè da un’innovazione-più-nuova destinata (fin dall’inizio) a rimanere sconosciuta, sterile, infeconda, tradita.
E anni dopo (1966), durante il tour italiano, dopo avere abbastanza disgustato ed esasperato Fernanda Pivano a Milano, la quale forse si aspettava un “altro” eroe della Beat Generation, più educato, più addomesticato, più malleabile, più pulitino, più conveniente e sobrio, Kerouac a Roma diventa un sacco di stracci ubriaco e pestato a sangue in pieno centro – di fronte al Bar Taddei ‒ che viene raccattato da Franco Angeli (il pittore non sa una parola di inglese), portato a casa e accudito – poi i due realizzano un capolavoro di arte vernacolare che è La deposizione di Cristo (due cristi che dipingono insieme, trovando un linguaggio comune di comprensione e fiducia reciproca) – il quadro verrà in seguito acquistato da Gian Maria Volonté, e tutta questa storia meravigliosa (non è vero?) ruota attorno a un’opera – nata per caso – che è un rapporto e che intesse a sua volta altri rapporti (casuali anche loro), rimanendo peraltro sempre “un fatto quasi privato” (Laura Cherubini) come sempre avviene per le opere d’arte vere: “Franco l’aveva soccorso e l’aveva portato in studio da lui, a via Oslavia, dove il poeta aveva dormito per un paio di giorni. Marina (allora Lante della Rovere) ricordava ‘quel quadro buttato lì, con quella tipica nonchalance che Franco aveva, nello studio di via de’ Prefetti dove si era trasferito da poco da via Oslavia e lo sentivo dire: ‘Che ignoranti! Buttano fuori Kerouac, non sanno manco chi è!’… poco tempo prima ricordo che Schifano, nella sua casa di Piazza in Piscinula, rideva a crepapelle del fatto che Angeli e Kerouac avessero fatto un quadro insieme senza parlare una parola nella lingua l’uno dell’altro. Mario parlava sempre in modo iperbolico e diceva: ‘… tutti i piccolo borghesi parlano bene l’inglese, Franco invece è un figlio del popolo, ma è meglio di tutti loro e Kerouac il quadro l’ha fatto con lui…’” (Laura Cherubini, Marina Ripa di Meana. Un ricordo).
Incontro puro, spontaneo – al di fuori dei reciproci condizionamenti. Il grande equivoco della cultura di questi anni e decenni – è quello di voler essere “etero-diretta”, di volere farsi dire ciò che deve dire. Il controllo è (sempre) l’origine di ogni male. La cultura aperta e democratica non deve avere alcun altro scopo che quello della conoscenza, dello sperimentalismo e della radicalità. Tutto (“Number 1: On June 23, 1945 I was released from New Mexico State Reformatory, after doing eleven months and 10 days (know the song?) of hard labor. Soon after returning to Denver I had the rare luck to meet a 16-year-old East Hi beauty who had well-to-do parents; a mother and a pretty older sister to be exact. Cherry Mary was her name because she lived on Cherry Street and was a cherry when I met her. That condition didn’t last long. I ripped into her like a maniac and she loved it. A tremendous affair, countless things to be said about it—I can hardly help from blurting out twenty or thirty statements right now despite resolution to condense. I’m firm (ha) and won’t tell the story of our five months’ intercourse ‒ with its many incidents that are percolating this moment in my brain; about carnival-night we met (Elitch’s), the hundreds of mountain trips in her new Mercury, rented trucks with mattresses in back, at her cabin, cabins I broke into, day I got her to bang Hal Chase, time I gave her clap after momentous meeting between her and mother of my second child (only boy before Diana’s), time I knocked her up; and knocked it, mad nights and early A.M.’s at Goodyear factory I worked alone in front from 4 P.M. to anytime I wanted to go home, doing it on golfcourses, roofs, parks, cemeteries (you know, dead peoples’ homes) snowbanks, schools and schoolyards, hotel bathrooms, her mother’s vacant houses (she was a realtor), doing it every way we could think of any-old-place we happened to be, in fact, we did it in so many places that Denver was covered with our peckertracks; so many different ones that I can’t possibly remember…”: Neal Cassady, il resto è robaccia, e per giunta robaccia che serve abbastanza chiaramente a conservare lo status quo. In questo senso, l’analisi interna del classismo nel sistema artistico e culturale è fondamentale (un classismo che influenza codici, scelte, argomenti, e modi di trattarli).
‒ Christian Caliandro
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