Le voci del monumento. Tra cronaca, battaglie civili e arte contemporanea
Arte, storia e monumenti: un legame complesso, indagato da Lisa Parola in un saggio che attraversa le epoche.
I primi minuti di Luci della città (1931) di Charlie Chaplin sono dedicati all’inaugurazione di un monumento nella New York d’inizio Anni Trenta. Quello che colpisce, prima della famosa e irriverente danza sospesa tra la Pace e la Prosperità, è la descrizione esatta di tutti gli elementi che accompagnano lo spazio del monumento. La città è sullo sfondo, al centro una forma astratta bianca e intorno tutti i soggetti che la definiscono: sul palco le autorità, il committente e l’artista, sotto la folla numerosa. A fianco di questi primi minuti di uno dei capolavori del cinema si può affiancare un’immagine dei primi Anni Ottanta del fotografo italiano Luigi Ghirri che riproduce, in un contesto urbano, il retro di un busto in marmo bianco di Carrara. Le immagini di Chaplin e lo scatto di Ghirri segnalano in modo preciso quanto il monumento, quando non accompagnato dalla storia – la memoria dell’uomo, di Stato, Chiesa o Cultura – possa trasformarsi in una sagoma informe immersa nell’indistinto dell’ordinario quotidiano.
Caratterizzati da alcuni elementi, un nome, un fatto, una data, un luogo e innalzati su un plinto che li posiziona in un spazio “oltre” e altrove rispetto alla storia, i monumenti se “rovesciati”, in senso ironico come per Chaplin o solo con un altro sguardo come ha scelto Ghirri, possono annullarsi, cancellando anche la loro funzione originaria: la trasmissione della memoria. Forme astratte posate in un fuori registro temporale. Questo semplice spostamento dell’autorità del monumento comporta un radicale ripensamento di quella forma e di ciò che vuole “far ricordare”.
LO SPAZIO DEL MONUMENTO
Collocato sempre in strade e piazze dall’autorità, con il passare del tempo il monumento diviene seduta, luogo d’incontro o punto d’orientamento, uno spostamento di funzione che lentamente cambia di senso anche in relazione alla storia e alla comunità di riferimento. Oggetti posati e vissuti, più che riconosciuti, quelle stesse forme per lo più realizzate con materiali “eterni” divengono opache e silenti.
Nella sua forma tradizionale, il monumento è una sagoma, il più delle volte figurativa, che pubblicamente si confronta con il tema della memoria e del ricordo; secondo l’etimologia latina, quella stessa memoria mette in campo anche un “far sapere”, un comunicare oltre.
Nella collocazione urbana, il monumento è caratterizzato da più elementi: la verticalità; innalzato su un plinto, è una forma che interrompe l’andamento ordinario della scena dando vita a uno strano intreccio tra l’alto e il basso, tra il qui e l’altrove. Un altro aspetto che caratterizza il monumento è la materia con il quale è prodotto, materia “eterna” come marmo o bronzo, che gli permette di superare e andare oltre alla storia. Un terzo aspetto è la sua delimitazione nello spazio. Sia che venga limitato in una zona circoscritta con catene, aiuole o più semplicemente dal colore della pavimentazione, l’estensione del monumento è definita sempre in un’area – il più estesa possibile –, una sorta di “aura” materiale che incornicia l’uomo, il fatto e la data e propone una sospensione temporale.
Nella narrazione e nel discorso urbano il monumento diviene dunque un punto fermo, immobile per il maggior tempo possibile. A queste prime riflessioni è importante affiancare alcune tesi di Frederic C. Bartlett in merito all’idea di memoria intesa come spazio di senso. La memoria di Bartlett è una visione interpretativa, uno sforzo verso il significato “che non si limita alla capacità di immagazzinare dati passati ma si presenta come un processo di ricostruzione che, partendo dagli interessi e dalle conoscenze del soggetto, tenta di ricostruire a posteriori il significato del ricordo” (La memoria. Studio di psicologia sperimentale e sociale [1932], Franco Angeli, Milano 1990). Uno sforzo di senso al quale si può associare anche la costruzione dell’immaginazione suggerita da Fabio Dei: “Monumenti, parate militari e civili, raduni di massa, comizi nei luoghi pubblici più rappresentativi, bandiere e inni nazionali, insieme al dispiegamento di un’ampia gamma di simboli dalla forte capacità di coinvolgimento emotivo sono gli strumenti che consentono l’immaginazione di una comunità moderna” (Antropologia e memoria. Prospettive di un nuovo rapporto con la storia, in Novecento, n. 10, 2004).
La forma del monumento è dunque un’inedita relazione fra attivazione del ricordo e costruzione d’immaginario, e in questo equilibrio memoria e immaginazione hanno una funzione comune: rendere presente qualcosa che è assente.
La città contemporanea è attraversata da una società plurale, nomade, caleidoscopica, “i cui valori possono differire tra loro. La memoria collettiva è dunque sempre intrinsecamente plurale, il risultato temporaneo di conflitti e compromessi tra volontà di memoria diverse” (Maurice Halbwachs, I quadri sociali della memoria [1925], Ipermedium, Milano 1997). A questa temporaneità corrisponde anche un elemento che rimane costante nel tempo: infatti, il luogo in cui le volontà delle comunità si confrontano è sempre lo spazio pubblico. È qui che il monumento viene collocato: nella piazza, nel giardino, qui dove le comunità si incontrano per stabilire, non senza conflitti, le loro temporanee volontà di memoria.
LA DIFFICILE RELAZIONE TRA ARTISTA, COMMITTENTI E COMUNITÀ
Ogni monumento, oltre a rappresentare la Storia, ha dunque anche una sua storia spesso preceduta da una lunga trattativa, più o meno conflittuale, tra i principali soggetti coinvolti: la committenza, l’artista, la cittadinanza. Posizionare un monumento in uno spazio pubblico non può dunque essere un’azione neutra e limitata alla sola idea di omaggio o ricordo; un monumento nello spazio pubblico è una voce, una narrazione che prevale su altre, spesso quella del potere.
In questo senso, uno dei precedenti più interessanti lo si ritrova in una committenza pubblica della città di Calais ad Auguste Rodin. Tra il 1885 e il 1895 l’artista realizzò, per l’omonima città, il monumento intitolato Les Bourgeois de Calais, un omaggio all’eroica resistenza della cittadinanza contro gli invasori inglesi nel XIV secolo. Il gruppo scultoreo rappresenta i cittadini nel momento in cui decidono di offrirsi volontariamente come ostaggi. L’artista progettò il monumento come una sorta di scenografia urbana. La successiva collocazione su piedistallo delle figure gli venne imposta dal committente con grande delusione dell’artista, che provò a imporsi ma poi accettò: “Volevo […] posizionare le mie statue, una dietro l’altra, davanti al Municipio di Calais, in mezzo al selciato della piazza come se fossero una corte vivente di sofferenza e sacrificio. […] Gli attuali abitanti di Calais, sfiorandoli nel passaggio, avrebbero percepito l’antica solidarietà che li lega a questi eroi. Sarebbe stato, credo, di grande effetto. Ma rifiutarono il mio progetto e mi imposero un piedistallo tanto deforme quanto inutile. Hanno sbagliato, ne sono certo” (cit. in Rodin and his contemporaries, Peter Stuyvesant Foundation, Sidney 1979).
LA CRONACA: MONUMENTI INGOMBRANTI
Se il monumento segna un punto fermo nella narrazione urbana, cosa accade quando la storia cambia direzione? Sono molte le situazioni nelle quali quella materia ormai immersa in una bolla sospesa oltre il tempo può riprendere il movimento e rientrare in dialogo con l’adesso. Seguendo l’insegnamento di Ghirri, provando cioè a rovesciare lo sguardo sul monumento, sono emersi fatti di cronaca; i tanti monumenti proposti e mai realizzati come quello in omaggio a George Orwell per la sede della BBC a Londra o inaugurati due volte come quello di Papa Wojtyla a Roma fino a quello dedicato a Roberto Franceschi, giovane studente della Bocconi ucciso negli scontri con la polizia nel 1973 e inaugurato quarant’anni dopo, nel gennaio del 2013.
LA RIMOZIONE DELLA MEMORIA TRA ARCHIVIO E PARCO DEI DIVERTIMENTI
Sono infinite anche le strade, che dal 1989 in poi hanno intrapreso le icone comuniste dell’Est europeo; molte divelte e distrutte ma altre raccolte e accumulate in tanti e differenti luoghi. Memento Park, nell’area metropolitana di Bucarest, è uno di questi, altri ne stanno nascendo. Curiosi giardini tematici che raccolgono una storia dismessa ma difficile da dimenticare.
Inaugurato nel 1993, Memento Park riunisce le statue di Lenin, Marx, Engels, gli stivali di quella che fu una statua di Stalin. I tratti fisionomici, le posture, i gesti e l’abbigliamento di uomini che sono stati capi ed eroi della rivoluzione comunista sono stati salvati dalla rimozione di un pezzo fondante della storia del secolo scorso. Qui i monumenti ai lavoratori e ai padri del comunismo convivono forzatamente in un unico “magazzino di memoria” che contrae il tempo e i fatti in un unico luogo anche se le “tracce”, che si rifanno a un corso lineare e conseguente della storia – e a una narrazione in gran parte maschile – arrivano da tante differenti città.
È difficile definire quando, dopo un lungo oblio, il monumento ricominci a misurarsi con il presente, ma mai come in questi ultimi decenni la stasi del monumento è tornata con forza a dialogare con i differenti percorsi della storia attuale. La rimozione delle statue del generale Franco in Spagna, l’ultima rimossa a Santander solo nel 2008, la distruzione delle statue di Saddam Hussein in numerose piazze di città irachene, in Libia con l’abbattimento da parte della folla del Libro verde di Muammar Gheddafi.
RIVITALIZZAZIONE E RIPOSIZIONAMENTO DELLA STORIA
Tenendo presente queste differenti tensioni e direzioni che definiscono il monumento, nell’impostazione della ricerca si è scelto di concentrare l’attenzione intorno a due orientamenti attraverso i quali l’arte contemporanea ha scelto di posizionarsi per tornare a osservare e interrogare le differenti e opposte narrazioni del XX secolo. Il primo orientamento prevede una sorta di “rivitalizzazione”, di “nuovo movimento” delle forme tradizionali in relazione al susseguirsi intricato di fatti, momenti e situazioni. Il secondo è invece una riflessione che prende spunto dagli scritti sulla memoria del filosofo italiano Paolo Rossi che, rifacendosi al pensiero platonico, affianca alla memoria, la pratica della “reminiscenza” intesa come atto di consapevolezza quando “cerchiamo nel passato di riafferrare un pezzo che è scomparso” (Il passato, la memoria, l’oblio, il Mulino, Bologna 1991).
Muovere la storia e posizionarsi rispetto a essa è l’idea che muove l’opera di Braco Dimitrijević. This Could be a Place of Historical Importance (1971-2012) è una serie di targhe in marmo di Carrara che riportano, con caratteri aulici, la stessa scritta del titolo, aprendo una riflessione in merito alla possibilità di un evento storico minimo, rimosso o dimenticato. Mettendo in crisi l’idea di storia pensata e vissuta come percorso uniforme, l’opera di Dimitrijević apre a tanti e nuovi percorsi plurali e storie possibili, lasciando tracce di queste in differenti contesti urbani: giardini, strade, entrate di musei o luoghi anonimi.
Un altro riposizionamento del ricordo lo si ritrova in un’immagine del 1986 di Jeff Wall intitolata The Thinker. In primo piano rispetto a un paesaggio urbano, e posizionato leggermente in alto rispetto ad esso, un uomo è seduto su due blocchi di cemento. Pur nell’umiltà del soggetto ritratto, evidente dall’usura degli abiti, la posa dell’uomo è un rimando diretto ma rovesciato alla figura potente del Le Penseur di Rodin, alla quale Wall ha intrecciato anche il ricordo e l’omaggio di una sconfitta di un’insurrezione contadina in Germania nel XVI secolo. A partire da questa immagine, nel 2009, in occasione di una mostra personale al Madre di Napoli, l’artista ha proposto la realizzazione di monumento dedicato alla delusione e al fallimento.
Witness di Mona Hatoum è una scultura in ceramica realizzata nel 2008 ed esposta nella mostra Interior Landscape alla Fondazione Querini Stampalia (2009). Il monumento ai Martiri che si erge nel centro di Beirut, un gruppo bronzeo che rimanda alla resistenza anti-ottomana precedente alla Prima guerra mondiale, è stato riproposto dall’artista in piccola scala e realizzato con un materiale fragile. I corpi delle figure riportano i colpi, ancora oggi visibili, inferti durante la guerra civile del Libano e in seguito ai conflitti con Israele.
Alle piccole dimensioni dell’opera di Mona Hatoum sembra controbattere il Silvio di sabbia e polistirolo realizzato nel 2010 da Sislej Xhafa, che ricorda le monumentali statue dei dittatori asiatici o mediorientali. Il busto del Primo Ministro italiano di allora è stato esposto negli spazi della Roda Sten Gallery di Göteborg e forse più delle dimensioni – 8 metri – colpiscono le parole riportate nel comunicato stampa: “Molto del lavoro di Xhafa è stato influenzato dagli anni del suo soggiorno in Italia, quando si è trovato ad affrontare la crescente xenofobia e i tanti contrasti fra culture presenti nel paese”.
Sono famosi i dibattiti mediatici sollevati dal Fourth plinth project a Trafalgar Square. Ogni proposta è un susseguirsi di polemiche e fazioni. Già nato come luogo del conflitto, il basamento vuoto della nota piazza londinese originariamente prevedeva una statua equestre che non venne mai realizzata per mancanza di fondi. Per più di centocinquant’anni il quarto plinto fu l’oggetto del contendere e solo nel 1998, grazie a un importante finanziamento della Royal Society for the Encouragement of Arts, Manufactures and Commerce (RSA) e il lavoro di una commissione scientifica, si riuscì a decidere di utilizzare il basamento per l’esposizione temporanea di opere d’arte promuovendo uno dei primi progetti d’arte pubblica della città. Rovesciando l’idea di “eternità” insita nel monumento, la temporaneità del quarto plinto è forse uno degli aspetti più interessanti con il quale si devono misurare gli artisti invitati. Un altro aspetto non secondario è l’intervento diretto dei cittadini, che possono partecipare sul sito al dibattito che ogni opera solleva. L’edizione che forse ha fatto discutere di più l’opinione pubblica è quella del 2009 con la proposta di Antony Gormley con One&Other, che ha portato in cento giorni più di 2.400 persone a “occupare” il piedistallo nel centro della piazza londinese. Ognuno aveva un’ora a disposizione. Il dibattito è iniziato subito, come in una grande arena si sono mischiati i problemi della sicurezza con quelli della politica, il senso dell’arte con i diritti delle minoranze. Ogni giorno dall’inizio della performance sulle pagine dei quotidiani inglesi sono stati pubblicati commenti pro e contro. Chi sosteneva che One&Other mettesse in scena il pubblico inconsapevole e chi invece si schierava a favore di un’opera che riusciva ad aprire le porte a un contesto dell’arte troppo snob ed elitario. Alla chiusura del progetto, non entrando nel merito delle polemiche, Antony Gormley ha dichiarato: “Il plinto è stato un segno di protesta o una piattaforma sulla quale ballare, un ring per la box, un pulpito, un luogo nel quale stare in silenzio o suonare. Un luogo che per cento giorni si è trasformato in uno spazio aperto alle possibilità”. Tra i progetti più significati del programma c’è anche Nelson’s Ship in a Bottle di Yinka Shonibare, vincitore dell’edizione del 2010. Shonibare è stato il primo artista afro-britannico a ricevere questo riconoscimento. L’opera è una bottiglia in vetro simile a un souvenir fuori scala che contiene una riproduzione del veliero Vittoria comandato da Lord Horatio Nelson quando il 21 ottobre 1805, al largo di Capo Trafalgar, vinse una delle più importanti battaglie navali per la flotta inglese. Sollevando un interrogativo in merito al ruolo dei Paesi africani rispetto alla storia della Gran Bretagna, nella riproduzione fedele della nave utilizzata nella nota battaglia, Shonibare ha scelto di posizionare l’opera proprio verso la statua di Nelson e di realizzare le trentotto vele con tessuti tradizionali, simbolo dell’indipendenza africana. A partire da questi due elementi, l’artista ha sollevato una problematica riflessione pubblica che mette a confronto la vittoria della Royal Navy con la società multiculturale della Londra contemporanea.
Come una sorta di rimando ad alcune opere di Land Art, Bamiyan Mirror è un lavoro fotografico dell’artista inglese William Cobbing che rende presente ciò che è assente: il vuoto lasciato dai Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, distrutti dai talebani nel 2001. Le immagini rappresentano solo le nicchie vuote riflesse però in uno specchio, una semplice operazione che enfatizza ciò che non c’è e induce a uno spiazzamento indotto da un fragile equilibrio tra assenza e presenza.
LA REMINISCENZA COME ATTO DI CONSAPEVOLEZZA
Nei numerosi progetti artistici recenti che trattano il tema del monumento, con una certa frequenza ho riscontrato quell’atto di reminiscenza descritto da Paolo Rossi: l’azione del provare a ricostruire, attraverso il riposizionamento della memoria e la riscrittura del documento, un pezzo di storia che è scomparso.
Uno dei progetti più significativi in questo senso è Lady Rosa of Luxembourg di Sanja Iveković, che mette in primo piano le questioni di genere rispetto al percorso che ha disegnato la storia e il pensiero moderno europeo. Esposto di recente al MoMA di New York, la storia del monumento ideato dall’artista croata inizia nel 1998 con l’invito a partecipare a Manifesta 2, che quell’anno si tenne in Lussemburgo. L’artista propose Pregnant Memory, che consisteva nella rimozione della Gëlle Fra, uno dei monumenti più noti della città, eretto nel 1923 e dedicato ai volontari che hanno combattuto nella Prima guerra mondiale (nel 1940, durante l’occupazione nazista, la statua è stata smantellata e nascosta in un deposito; nel 1985 è stata ricollocata in una piazza pubblica e alla targa sono stati aggiunti i nomi dei caduti della Seconda guerra mondiale.). Nell’intento di Sanja Iveković, la parte più alta del monumento, una Nike dorata, avrebbe dovuto essere rimossa e installata vicino a un Centro per donne vittime di violenza, ma in quell’occasione la proposta venne considerata troppo problematica da realizzarsi. Tre anni più tardi, nel 2001, l’artista venne invitata dalla Città di Lussemburgo a ripensare alla proposta in occasione di una mostra prodotta dal Musée d’Histoire de la Ville de Luxembourg. Da questo secondo invito nasce il progetto Lady Rosa of Luxembourg: una replica della Gëlle Fra, installata a pochi passi da quella originale. Tre sono gli elementi che contraddistinguono la copia del monumento: il primo è la dedica a Rosa Luxemburg; il secondo elemento è che la Nike di Sanja Iveković è una donna incinta; il terzo è che la targa commemorativa che nel monumento originale è un omaggio all’eroismo maschile, nella copia è stata sostituita con parole in francese, tedesco e inglese che compongono un gioco di senso e sollevano le complessità della lingua quando riportate in ambito di genere, creando un intreccio tra la parola resistenza e arte, cultura e indipendenza, libertà e puttana. In occasione della personale a New York l’artista, parlando del lavoro, ha voluto ribadire quanto le donne abbiano svolto un ruolo “significativo nel movimento di resistenza del Lussemburgo durante la Seconda guerra mondiale, ma la loro lotta è stata cancellata dalla storia ufficiale”.
I temi del post-coloniale sono infatti un elemento centrale nella ricostruzione del monumento in relazione alla Storia contemporanea, come nel caso di afrika-hamburg.de del 2006 ideato da Jokinen e promosso dal programma Hamburg postkolonial. Un lavoro d’archivio attivo ancora oggi. Nel 1909 la statua dedicata al generale Hermann von Wissmann venne inaugurata nel centro di Daressalam, una colonia tedesca nell’attuale Tanzania. In seguito alla perdita delle colonie della Germania a favore della Gran Bretagna, durante la Prima guerra mondiale il monumento venne spedito, via Londra, ad Amburgo e nel 1922 “ri-eretto” di fronte alla sede dell’Università di Amburgo. Nella nuova collocazione divenne il più importante monumento della Germania coloniale durante il nazismo. Per molti anni rimase intonso ma durante gli scontri del 1968, con l’aiuto di corde, venne divelto da un gruppo di studenti e per quasi quarant’anni venne custodito nei sotterranei dell’Osservatorio Bergedorf, nella periferia di Amburgo.
Attraverso una lunga ricerca, l’artista rintraccia il monumento nel 2004 e chiede i permessi per esporlo temporaneamente nel porto di Amburgo, ponendovi di fianco una targa che riporta l’indirizzo web del progetto e una sequenza di fotografie storiche che documentano le occasioni in cui il monumento è stato eretto, trasportato e divelto. Nel sito di afrika- hamburg.de vengono riportati anche numerosi documenti che testimoniano quanto, dopo il ritorno del monumento ad Amburgo, la figura del generale sia stata posta a continue riletture per offrire all’opinione pubblica un’idea di buon colonizzatore. Terminato con una mostra alla Kunsthaus nel 2005, il progetto è una raccolta dettagliata di documenti e materiali storici ai quali sono stati affiancate le divergenti opinioni dei 35mila cittadini che hanno visitato il sito durante i quattordici mesi d’esposizione e dalle quali emerge che il 95% degli interpellati condivide l’idea che il monumento Wissmann non vada più rimosso dallo spazio pubblico, per rendere evidenti e pubbliche le contraddizioni della narrazione storica.
UNA STORIA TUTTA ITALIANA
Nell’ambito di numerose ricerche di artisti italiani contemporanei, il tema della storia e del monumento occupa, in questi anni, un ruolo centrale. Nonostante una definizione confusa e arretrata di arte e sfera pubblica, In Italia a partire dalla metà degli Anni Novanta sono molti gli artisti che hanno indagato questo ambito, dando vita a un panorama articolato di temi e metodologie.
Anche in questo caso gli esempi sono numerosi ma ci siamo concentrati sull’idea di reminiscenza che pare particolarmente evidente in alcuni progetti ideati da artisti nati tra gli Anni Settanta e Ottanta del XX secolo e presentati in differenti situazioni nell’ultimo decennio.
La pratica della reminiscenza è uno dei tratti centrali della ricerca di Francesco Arena. “Che cosa è successo? Com’è morto Giuseppe Pinelli?”. In una storia italiana piena di vuoti e rimossi, sono queste le domande che muovono occhio destro occhio sinistro, una sua opera del 2011. Due lastre in marmo bianco documentano quanto il monumento possa contenere direzioni divergenti della Storia. A Milano, la morte di Giuseppe Pinelli è oggi commemorata da due lapidi collocate in piazza Fontana, esattamente di fronte a quella che ricorda le vittime della bomba del 1969. Pinelli, scagionato dall’accusa, è entrato nella storia come la 18esima vittima dell’attentato. Negli Anni Settanta, gli anarchici posero una prima lapide in memoria: “A Giuseppe Pinelli ferroviere anarchico ucciso innocente nei locali della Questura di Milano il 16-12-1969”. Nel 2006 l’amministrazione di Gabriele Albertini e i “democratici milanesi” sostituirono la lapide abusiva con una lastra ufficiale che, sotto il simbolo del Comune di Milano, riportava: “A Giuseppe Pinelli ferroviere anarchico innocente morto tragicamente nei locali della Questura di Milano il 15-12-1969”. Pochi giorni dopo gli anarchici tornarono a collocare la vecchia lapide e oggi le due lapidi sono lì, una di fianco all’altra, evidenziando le loro differenti posizioni: la data della morte – il 16 dicembre per gli anarchici, il 15 per il Comune di Milano –e le parole – “ucciso innocente” e “innocente morto tragicamente”. Nella conclusione del documento che accompagna l’opera, Arena scrive: “In appena tre metri e in pochissime parole c’è tutta la distanza tra due visioni opposte e l’incertezza per una storia mai chiarita. Com’è piccola Milano”.
Momentary Monument è invece la definizione che accompagna una parte della ricerca di Lara Favaretto che, con azioni volutamente machiste (la movimentazione di centinaia di sacchi di sabbia o di quintali di materiale di scarto) risponde alla Storia costruendo un monumento del monumento. Nel 2009 l’artista ha svolto ricerche nell’Archivio storico della Città di Trento, individuando nella statua di Dante Alighieri un simbolo della memoria collettiva della città; il monumento del poeta con il braccio teso verso nord è un monito verso chi voleva soffocare l’identità italiana del Trentino. Già molte furono le polemiche che accompagnarono la costruzione tra il 1891 e il 1896, altre si sono sollevate quando l’artista, invitata a ideare un’azione pubblica per la Fondazione Galleria Civica, ha deciso di concentrare il suo lavoro su uno dei più “problematici” monumenti di Trento. Intorno al monumento Lara Favaretto avrebbe voluto costruire una barriera di otto metri composta da sacchi di sabbia; un vero e proprio muro per occultare quel simbolo. L’uso del condizionale è d’obbligo perché, mentre già tutti i giornali sollevavano note polemiche intorno all’azione – sia per il costo sostenuto, una cifra attorno 160mila euro, sia per l’aspetto criptico dell’opera –, una parte del muro è crollata e sono stati in molti a ipotizzare un sabotaggio. L’opera è stata comunque inaugurata ma si è dovuto intervenire abbassando il muro dagli otto metri previsti a soli tre e mezzo.
La reminiscenza è insita nella ricerca di Rossella Biscotti. Nel Processo, l’installazione presentata e premiata al Premio Italia nel 2010, l’artista ha riproposto alcuni estratti audio e la ricostruzione di alcuni particolari architettonici dell’aula bunker del Foro Italico dove si svolse il processo alle Brigate Rosse a Roma nel 1983. Nella sua ricerca l’artista attiva sempre una sorta di scavo archeologico nella contemporaneità, riportando alla luce tracce di storia italiana, frammenti che impediscono un reale processo di emancipazione e consapevolezza da parte delle generazioni successive. Questo percorso di riaffioramento lo si ritrova anche in Le teste in oggetto del 2009, che ha permesso di far risalire dai depositi dell’Eur cinque sculture in bronzo raffiguranti le teste di Vittorio Emanuele III e di Benito Mussolini realizzate dagli scultori Giovanni Prini e Domenico Rambelli per l’Esposizione Universale di Roma del 1942 – cancellata a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale.
Sospesa tra documento e monumento, la ricerca di Cosimo Veneziano parte il più delle volte da documenti d’archivio. Questo è dunque un monumento? è un progetto d’arte pubblica che nasce dalla volontà dell’artista di creare le condizioni per consentire l’apertura e la schedatura dei documenti della fabbrica torinese della Superga per decenni custoditi e inaccessibili nell’archivio della Città di Torino. Il progetto si è concluso il 9 marzo 2012, il giorno nel quale è stato inaugurato un monumento “minimo” dedicato alle operaie che per decenni sono state più dell’80% dei lavoratori della fabbrica. In Italia, una delle rare testimonianze del lavoro delle donne. In un’area periferica di Torino, appoggiandosi a una fontana preesistente – realizzata nel 2000 al posto di uno dei padiglioni dello stabilimento –, l’artista ha posto quattro semplici lastre di Cor-ten che riproducono i quattro gesti che quotidianamente le operaie ripetevano nel corso della loro giornata. Dando senso a un monumento senza storia, il progetto di Cosimo Veneziano riunisce “tracce di storia” e spunti di riflessione in merito alla difficile relazione tra i generi e le generazioni, tra la memoria e la sua rappresentazione nello spazio pubblico.
CONCLUSIONI
Ogni monumento è dunque un fragile equilibrio fra storia e immaginario. E nel passaggio tra XX e XXI secolo, in quel passaggio nel quale siamo immersi e che ci mette di fronte a un processo complesso nel quale ancora convivono le tensioni fra una storia lineare e una storia “in tempo reale”, caratterizzata da una pluralità di voci e da un accumulo di date e dati – in questo preciso passaggio, lo spazio del monumento tende a farsi opaco. Quando è immerso in un paesaggio in movimento, segnato dai radicali cambiamenti della Storia, la forma del monumento si fa permeabile ed elastica. La zona che lo definisce si apre a più voci, storie, fatti e rimozioni che ne modificano la fisionomia non più limitata e legata a un’unica comunità, ma contesa tra soggetti plurali che condividono un unico luogo urbano. Ma non necessariamente un’unica memoria.
‒ Lisa Parola
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #42
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