Ancora sul MUDEC di Milano. La riflessione di Renato Barilli
L’identità del museo milanese è una questione delicata, che Renato Barilli affronta con decisione. Suggerendo una serie di spunti e proposte.
Mi permetto di ritornare su una questione da me già trattata, riguardante l’uso che il Comune di Milano dovrebbe fare del Museo MUDEC. Mi legittima a insistere sull’argomento sia il mio ruolo di critico d’arte a livello nazionale, sia anche quello di residente a Milano, seppure con un minimo pied-à-terre. Dunque, ricapitoliamo. Si deve partire dall’insufficienza del Museo del Novecento, che oltre alle strette del sito dove è stato posto, l’Arengario, risente di un limite cronologico, fermandosi ai primi Anni Settanta e così tagliando fuori addirittura un mezzo secolo in cui la città ambrosiana è stata attivissima nel nostro Paese. L’edificio di via Tortona avrebbe dovuto consentire proprio una simile estensione, se non altro con mostre temporanee. Ma poi gli amministratori hanno subìto un calo di fiducia, hanno ritenuto cioè che l’arte contemporanea da sola non reggesse uno spazio ad hoc, e allora hanno imbrogliato le carte tentando di fare di quella sede una specie del parigino Musée de l’homme, dandosi cioè all’antropologia culturale, alla sociologia, ma nello stesso tempo proponendo pure temi di stretta attualità artistica, il che però ha portato a una certa confusione con quanto viene programmato a Palazzo Reale.
“Il Comune di Milano, con relativi sponsor, pratichi una politica decisa: al Palazzo Reale le esposizioni su artisti ormai inoltrati nella storia, mentre il contemporaneo, anche attraverso testimoni recenti come Manzoni, Isgrò e Agnetti, quest’ultimo esposto addirittura a latere rispetto al Palazzo centrale, venga presentato in fitta e coerente sequenza al MUDEC”.
Il mio consiglio è di lasciar cadere gli aspetti sociologici, spostandoli altrove, e invece di concentrarsi sulle mostre di artisti di grido e conclamati dell’oggi. Per esempio, è stato un grande successo la mostra dedicata a Jean-Michel Basquiat, ora superato, se possibile, da quella per Frida Kahlo. Ricordo invece una brutta, incompleta, insoddisfacente mostra dedicata a Paul Gauguin, con opere minori e marginali. D’altra parte, lo spazio limitato non avrebbe neppure consentito di rendere omaggio nella misura migliore al grande fondatore del Simbolismo in pittura, della cui presenza, invece, è stata quasi del tutto privata una mostra proprio in Palazzo Reale dedicata a quell’intero movimento. Morale della storia? Il Comune di Milano, con relativi sponsor, pratichi una politica decisa: al Palazzo Reale le esposizioni su artisti ormai inoltrati nella storia, mentre il contemporaneo, anche attraverso testimoni recenti come Manzoni, Isgrò e Agnetti, quest’ultimo esposto addirittura a latere rispetto al Palazzo centrale, venga presentato in fitta e coerente sequenza al MUDEC. Così forse i conti tornano, senza forzature e alti e bassi, tra mostre di grande successo e altre che invece sono dei flop per marginalità sia della sede che del tema. Soluzione ancora migliore sarebbe stata quella di riservare all’arte contemporanea uno dei padiglioni dell’Expo, ma a questo non si è pensato a tempo, prima che quelle magnifiche costruzioni venissero demolite, o dirottate verso altre destinazioni.
‒ Renato Barilli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #42
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