Il lato “ciocco” dell’arte
Arte e cioccolato. Un connubio frequente, analizzato nella rubrica “Buonvivere” da Carlo e Aldo Spinelli.
Il meno giovane di noi due ricorda con divertito rimpianto un lungo viaggio in auto di quasi cinquant’anni fa. Da Parigi a Milano, sul Maggiolone, superando il valico del Moncenisio in pieno inverno e con il riscaldamento spento, perché sul pavimento davanti al sedile posteriore era comodamente posizionata una scatola di legno contenente il P.O.TH.A.A.VFB (Portrait of the artist as a Vogelfutterbüste) (1968), cioè l’autoritratto che Dieter Roth aveva realizzato con un impasto di cioccolato e mangime per uccelli. La scatola non era ingombrante ma il suo contenuto particolarmente vulnerabile, in quanto il calore avrebbe potuto modificare irreparabilmente la fisionomia della scultura. Ma oltre a questa si aggiungevano ben altre preoccupazioni: come giustificare al posto di blocco di confine questo trasporto eccezionale? Era sufficiente mostrare le credenziali della galleria o poteva essere confuso con un modesto quanto truffaldino contrabbando di un paio di chili di cioccolato?
Senza dubbio non è questo il primo caso in cui Dieter Roth è riuscito a imbarazzare non solo il pubblico, ma anche la critica e i responsabili di musei e istituzioni varie servendosi del dolcissimo frutto dell’albero del cacao. Infatti nel 1969 Basel am Rhein, una “pittura” realizzata stendendo un sottile strato di cioccolato su una lastra d’acciaio, ha iniziato dopo poco tempo a preoccupare conservatori e restauratori poiché l’interazione tra le due componenti creava le condizioni ottimali per l’insediamento di insetti che avrebbero portato alla totale degradazione dell’opera, che nel suo intento riusciva (e riesce tuttora) a dimostrare quanto “la natura assomiglia a un quadro astratto”. Ecco quindi il grande dilemma: rispettare le intenzioni dell’artista (e le implacabili leggi della biologia) oppure preservare l’oggetto in questione nelle migliori condizioni, anche a costo di alterarlo in modo sostanziale annegandolo in una sovrabbondanza di precauzioni?
Per Dieter Roth l’opera d’arte deve essere deperibile, proprio come la vita: non a caso l’artista tedesco ha giocato più volte con il significato inglese del suo cognome, trasformandolo in ‘Rot’, cioè “marcire, putrefarsi”, e mettendo in mostra le più estreme forme al limite della deformazione fino all’orlo della decomposizione. Ad esempio con Die Badewanne des Ludwig van (1969), una vasca da bagno a grandezza naturale riempita con busti di Beethoven, alcuni realizzati con cioccolato e altri con grasso animale. Quest’opera è ora di proprietà del Ludwig Museum di Colonia e, nonostante sia conservata in una teca di plastica, nei periodi più caldi dell’anno obbliga il pubblico a non superare la soglia della sala per via dell’insopportabile puzza.
Se da una parte i nanetti da giardino annegati nel cioccolato (Zwerge, 1970) e il Schokoladenlöwe (Selbstportrait als Löwe) (1971), sempre di cioccolato, sono dolci (ovviamente), teneri e innocui, la Shokoladeturm (1994-2013), grande torre con decine di busti su ogni piano inframezzati da cristalli, tutte le volte che viene messa in mostra rischia di crollare da un momento all’altro, nel caso in cui una minima variazione di temperatura o di condizioni chimico-fisiche della materia prima ne alterasse la stabilità: attenzione ad avvicinarvisi, sono tonnellate di cioccolato!
JANINE ANTONI
Molto più sensuale, perché strettamente collegato al gusto e al tatto, è il rapporto di Janine Antoni con il “cibo degli dei”. Nel 1992 l’artista americana ha realizzato Gnaw, due semplici cubi, uno di cioccolato e l’altro di lardo. Ognuno pesante 600 libbre (circa 300 chilogrammi). Nulla di semplicemente “minimal”, perché i due cubi sono stati presi letteralmente a morsi dalla scultrice (vedi il titolo onomatopeico dell’opera) per poi ricavare, con il “masticato”, una serie di oggetti che sono stati affiancati ai due cubi in occasione dalla successiva esposizione al MOCA – Museum of Contemporary Art di Los Angeles nel 2001. Con il lardo ha costruito una serie di rossetti per labbra, mentre con il cioccolato ha prodotto contenitori sagomati a cuore, simili a quelli utilizzati come base nelle scatole di cioccolatini. È invece dell’anno successivo Lick and Lather, una serie di quattordici busti, sette di cioccolato e altrettanti di sapone. Anche in questo caso il suo intervento è andato più a fondo, si è fatto più sensualmente corporale. Ogni suo busto di cioccolato è infatti stato da lei leccato fino ad alterarne la fisionomia: “Non passa tanto tempo tra l’odorare e l’assaggiare. È divertente quando crei opere sul desiderio e chi le osserva cede a questo desiderio”. Anche le sculture di sapone sono state usate nel modo più consono, poiché le ha accarezzate per minuti nella vasca da bagno fino a farsi sommergere dalla schiuma.
DA MONDINO A RENOIR
Altri artisti hanno frequentato, anche sporadicamente, il cioccolato. Ad esempio l’immancabile Aldo Mondino con le serie di coloratissimi cioccolatini allineati a rappresentare mappe o bandiere, oppure Vik Muniz con i suoi Sigmund Freud e Jackson Pollock dipinti a pennello. O ancora Suzanne Duchamp in uno stampo di cioccolato (1965) o la Camera dell’Eroe (Venere di cioccolato) (1970) di Vettor Pisani, senza tuttavia scordare i due più celebri anticipatori: La Tasse de chocolat (1912 ca.) di Pierre-Auguste Renoir e la Broyeuse de Chocolat (1913) di Marcel Duchamp.
‒ Carlo e Aldo Spinelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #43
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