I diritti delle periferie. L’editoriale di Antonio Natali
Antonio Natali sottolinea la necessità di non dimenticare le periferie urbane nella mappatura dei “luoghi d’arte”. Portando l’esempio di un capolavoro fiorentino.
Càpita sempre più spesso di sentir parlare della necessità di riqualificare, anche esteticamente, le periferie. È, questa, una materia per la quale la politica si spende in promesse, soprattutto perché le periferie sono capienti serbatoi di voti. Per solito però si tratta d’impegni destinati a restare inappagati. E, a pensarci, verrebbe di dire: grazie a Dio; giacché, quando invece siano mantenuti, ci s’avvede che nelle aree decentrate s’è finito per stornare quello che nelle zone centrali era stato, per difetto di qualità, rifiutato. Sicché quanto potrebbe giovare ad avvalorare l’estetica (e insieme però anche l’educazione, e quindi l’etica) della periferia, di nuovo viceversa le si ritorce contro.
Non sempre tuttavia è così. Posso portarne un esempio attuale. Quando si lavorava al progetto della mostra sull’arte fiorentina del Cinquecento, da poco chiusa a Palazzo Strozzi, si pensò che sarebbe tornata utile a rappresentare l’adesione del Bronzino all’espressione auspicata dal concilio di Trento, una sua pala monumentale con l’Immacolata Concezione. Quell’opera (ch’è poi l’ultima di lui, 1570-1572) sarebbe stata esposta contigua al Compianto dipinto da Agnolo nel 1545 per la cappella d’Eleonora di Toledo (oggi a Besançon), venendo così a dar contezza perspicua delle mutazioni linguistiche del Bronzino dopo che il concilio aveva espresso i suoi convincimenti in materia d’arte sacra.
“C’è chi oggi si domanda perché un’opera così importante e, anzi, proprio fondamentale nel percorso dell’arte fiorentina dopo la riforma cattolica, sia relegata in una parte di Firenze dove per solito nessuno va“.
L’Immacolata Concezione era ignota ai più (storici dell’arte inclusi) perché al tempo in cui non se ne sospettava un’autografia così prestigiosa era stata posta alla parete di fondo della chiesa di Santa Maria Regina della Pace, ubicata in una scombinata periferia fiorentina e consacrata nel 1951. Anche chi, intendente d’arte, fosse per ventura entrato in chiesa, non avrebbe verisimilmente notato la pala imponente, prima di tutto perché i veli ingialliti delle stagioni l’avevano fortemente appannata, ma specialmente perché un fitto corteo di canne d’organo, parimenti imponenti, le stavano davanti e ne coprivano la vista. Una fondazione americana, cui la città è in debito di tanti e ragguardevoli interventi – i “Friends of Florence” –, s’assunse l’onere cospicuo del restauro della tavola, che ora davvero rende preziosa la chiesa intera.
“Quanto potrebbe giovare ad avvalorare l’estetica (e insieme però anche l’educazione, e quindi l’etica) della periferia, di nuovo viceversa le si ritorce contro”.
C’è chi oggi si domanda perché un’opera così importante e, anzi, proprio fondamentale nel percorso dell’arte fiorentina dopo la riforma cattolica, sia relegata in una parte di Firenze dove per solito nessuno va. Non credo che questa voce debba trovare ascolto. Ma a quelli che non di meno sostengono per la pala bronzinesca un’ubicazione consona alla sua importanza storica andrà detto che in quella parte di Firenze vivono donne, uomini e soprattutto giovani, che meritano d’essere considerati cittadini di Firenze, al pari di quelli che abitano nell’area della città dove il destino ha concentrato tanta ricchezza di cultura. Ricchezza che il più delle volte è trascurata da chi c’è immerso e magari si lamenta del costipato concorso di folle turistiche da cui si sente assediato. Non sarebbe allora male che il governo cittadino s’impegnasse a divulgare la notizia di questa presenza eminente nella periferia. Così come non sarebbe male che si desse da fare per promuovere quei tanti luoghi, anche meno lontani dal cuore di Firenze (anzi, spesso proprio lì), che ospitano bellezze perfino insospettate. Tanto più che, al momento, non si vedono tant’altre vie per allentare l’ossessivo ingolfamento fra la Galleria dell’Accademia, col David di Michelangelo (feticcio supremo), e la Galleria degli Uffizi, col Botticelli (inquilino nobile).
‒ Antonio Natali
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #10
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