Arte e scienza. Due mondi in dialogo a Spoleto
Doppia esposizione organizzata dalla Fondazione Carla Fendi nell'ambito del Festival dei due Mondi. Il concetto di origini affrontato dal punto di vista scientifico e filosofico-artistico. Ne abbiamo parlato con il curatore Quirino Conti.
La scienza è l’argomento fondamentale del nuovo corso della Fondazione Carla Fendi. “È una disciplina sulla quale bisogna investire per preparare il mondo che verrà”, dichiara la direttrice Maria Teresa Venturini Fendi, “considerato anche che viviamo in un mondo permeato dalla tecnologia”. Senza trascurare i rapporti tra arte e scienza: “Arte e scienza non sono universi separati. Concetti e risultati della scienza hanno influenzato la produzione degli artisti. La scienza è ricerca e intuizione”.
Si muove in questo filone la doppia mostra Il mistero dell’origine, che la fondazione propone nell’ambito del Festival dei due Mondi di Spoleto. Un’installazione “immersiva” a tema scientifico, per la parte intitolata La scienza; una mostra che riunisce 23 opere tra scisti orientali (II-IV sec. d.C.) e marmi greco-romani, per la parte intitolata Miti trasfigurazioni. Il curatore di quest’ultima sezione, Quirino Conti, ci racconta l’iniziativa.
Quali sono i presupposti e come si struttura la mostra?
La scienza ha da qualche secolo un’accezione “illusoria”. La scienza che parla di se stessa è una cosa completamente nuova, di questo tempo. Non c’è classe borghese o matrimonio borghese che non abbia un figlio spedito a Londra a studiare matematica, fisica, scienza della particelle… Atteggiamento che rivela un “ottimismo” che nulla ha a che fare con quello di Voltaire, che era permeato da molti più dubbi. Qui si tratta di un ottimismo infantile, forse frutto di cinematografia avventuristica. Abbiamo acquisito sulla scienza una fiducia tale che non può che essere stemperata. Altrimenti la delusione sarà drammatica.
L’unica cosa che si sa oggi è che la scienza non può dare risposte certe, se non approssimative o contraddittorie. Dopo il bosone si è capito che le scienze esatte così esatte non sono. E questa scoperta forse era già stata fatta migliaia e migliaia di anni fa dalle filosofie dell’epoca. Ci fu grande continuità tra filosofia occidentale e orientale riguardo allo scetticismo sul fatto di poter conoscere. Alessandro Magno morì prima di penetrare in India, è vero. Ma lasciò in Oriente i suoi Fidia, i suoi Policleto, i suoi pensatori… Con altri nomi e in altri tempi questo ha prodotto quella forma straordinaria di sincretismo, di simbiosi, di mutuo scambio che è il Gandhara, forma d’arte nella quale la rappresentazione del Siddharta illuminato si confonde con Apollo…
Come si esplicitano nell’esposizione questi punti di contatto tra culture?
Abbiamo in mostra un enorme scisto di diversi quintali, molto più ampio rispetto alla grandezza naturale, di un Buddha acefalo e senza braccia ‒ ma il corpo è intatto. Se lei lo mostra a chiunque le dirà che è un retore panneggiato greco oppure romano: presenta quel panneggio che la Grecia portò in Oriente creando un nuovo linguaggio formale, quel modo di trattare la materia dandole vita, mentre prima la materia era più astratta, geometrizzata. Eppure si tratta di un’opera pakistana del II secolo. In due luoghi diversi, un ex battistero e un’ex armeria, la mostra evidenzia due posizioni. Da una parte si crea un viaggio dentro la materia, dentro le cosiddette certezze che abbiamo: la sperimentazione della materia, delle velocità, i macrocosmi e i microcosmi sempre ulteriori che si scoprono… questioni che vengono rese visibili in maniera scientifica. Dall’altra parte, quelle stesse verità o pseudo-certezze vengono analizzate per come erano state vissute in epoche così lontane.
Nella sezione Miti trasfigurazioni, dunque, il tema generale della scienza si accosta per contrasto, rispetto alla concezione delle scienze esatte diffusa a livello di massa…
Esattamente. Ho avuto la fortuna di frequentare Fellini, che mi diceva “Prima o poi devo vedere la distruzione di Piero Angela” [ride, N.d.R.]. Per lui era intollerabile che ci fosse qualcuno che metteva in crisi le sue certezze sui veggenti, sulla trasmigrazione, sulla transustanziazione… Stiamo vivendo un momento grandioso, in cui la scienza esatta del Cern ci dice che la nostra unica certezza è che non sappiamo quasi niente; arranchiamo dietro a intuizioni che non possiamo dimostrare. Molto più di duemila anni fa, la posizione era: viaggio dentro di me e cerco quella quiete che nessuna conoscenza mi dà. Per la mostra siamo partiti dalla frase di Kant: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me“.
Il concetto di spiritualità è affrontato da un punto di vista umanistico, in senso ampio…
Certo, anzi direi da un punto di vista morale. Si cerca questa specie di misericordia, come la chiamano gli indiani, questa pietà per se stessi e il mondo e ci si accorda con quello che non si riesce a spiegare. Nulla ci è chiaro: da dove siamo venuti, dove stiamo andando. La scienza racconta modalità e non cause prime. E anche se parla di cause prime sono cause prime sottoposte alla credibilità di formule matematiche, come noi mostriamo con la simulazione del Big Bang. Le formule non sono elementi concreti e praticabili. Il manifesto della parte scientifica riporta infatti una formula, quella del bosone: sono segni, segnali come geroglifici, qualcuno di estraneo al linguaggio non li sa decifrare nemmeno a livello di stile. L’impermeabilità o impermanenza della realta è una cosa antichissima. La motivazione all’origine della mostra è stata per me la volontà di scoprire come filosofia greca e indiana si incontrarono e crearono ciò che pensiamo oggi. Non siamo figli di Platone, ma di qualcosa che ha reso sincretico Platone e Siddharta.
Ci dia qualche esempio di affinità formali tra culture diverse riscontrabili in mostra.
Alcune sono commoventi. Ad esempio il volto di Buddha, che era rappresentato un po’ come nelle icone cristiane, ovvero simbolicamente schematizzato, diventa il volto di Apollo. Tutto ciò dipende dallo scambio tra le culture. Lo scultore che conosceva uno schema classico per rappresentare Buddha viene a conoscere Apollo, la mitologia, il discorso cosmico che sta attorno ai miti greci, e il volto diventa un ovale più sognante, con lineamenti precisi, un sorriso particolarissimo. Il Buddha diventa apollineo. In mostra si incontrano dei Buddha con le mani congiunte sul grembo, che alzano un braccio nell’accoglienza, un gesto che viene spiegato con la locuzione “non temere”. Sono emblemi di tutto ciò che si trascinò verso Occidente, un pensiero che non immaginavamo di incontrare. Niente a che vedere con l’entusiasmo per orientalismi “subodorati” di qualche decennio fa. Sul corpo scolpito degli scisti leggiamo il passaggio del nostro tempo, quello che siamo diventati. L’arte Gandhara è molto più che arte sincretica, è la cifra di quello che siamo e pensiamo.
Qualche cenno sull’allestimento, piuttosto importante nell’economia visiva della mostra…
Il battistero sconsacrato in piazza Duomo ha forma poligonale: ogni anno montiamo in questo ambiente una superficie circolare di proiezione totalmente immersiva. Due anni fa, nella mostra su Proust e Visconti, davamo la sensazione di entrare in un bosco di betulle. Quest’anno si dà la sensazione di entrare veramente nello spazio, di vivere i movimenti della materia, gli scontri tra buchi neri. Mito e trasfigurazioni è invece allestita in un sotterraneo, l’ex armeria Lucrezia Borgia, un sotterraneo voltato a crociera meraviglioso, tutto bianco. Inserendo frammenti di roccia che sembrano veri diamo la sensazione di camminare in una grande grotta platonica. In fondo c’è un enorme simbolo del sole che sta declinando, di oro zecchino ‒ uno slancio barocco, se vogliamo. E poi c’è un pavimento specchiante, sembra di camminare sull’acqua con passo incerto. Su basamenti di acciaio sono posti i reperti: piccole teste di stucco del I secolo, scisti del II secolo, mischiati all’origine di un certo sincretismo, gli Apollo, i Dioniso, il culto di Mitra contrapposto al culto del Buddha nella grotta. Come fosse un grande cartoon, all’interno del quale confrontare ciò che succedeva in ambito greco e in ambito indiano. Uno scontro quasi nuziale in cui le due forme si confondono e danno luogo a un’altra cosa.
‒ Stefano Castelli
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