Summer Theory No. 2 (V)
Quinto appuntamento con la “Summer Theory” di Christian Caliandro. Un tuffo nel presente, con gli occhi rivolti al passato e al futuro.
Il Casale del Colonnello, Carsoli, 8 luglio 2018. Santa usa gli occhialini da piscina di mia madre. (Bello: le cose hanno un loro spirito, che vaga e si trasmette.)
***
Vent’anni fa a Gioia del Colle, cercare parcheggio in attesa di incontrare V. in villa – poi portarla al bar, appuntamenti coltivati per una settimana – il film di Kusturica visto insieme, abbracciati e con le mani intrecciate – il vino bianco (Fiano) cercato in paese per portarlo alla famiglia benestante di S., e fare bella figura: i primi vini seri in assoluto cercati e comprati, La Strada visto di pomeriggio dopo il mare, camere separate di notte e auto rosso fuoco per andare in spiaggia – estati che sono spettri di mesi e settimane ormai, canzoni e viaggi e weekend perduti e ritrovati, ora, a bordo piscina al confine tra Abruzzo e Lazio.
“… sono milioni quelli che dobbiamo piangere. Ma proviamo a evocare l’immagine di milioni di morti! Di fronte a grandezze così abnormi la percezione si blocca, e il rimorso non si attiva. Ma questa incapacità è la cifra dell’obsolescenza dell’umano. Scrive Anders: ‘Restiamo manchevoli (…), non siamo all’altezza dell’enormità della ‘cosa’ che vogliamo piangere’. Di qui il nostro fallimento a celebrare il lutto. Un lutto che si articola su tre punti: il primo riguarda gli esseri umani che abbiamo perduto; il secondo il fatto che costoro sono morti per nulla; il terzo generato dalla presa di coscienza che la perdita è troppo grande perché ci sia possibile piangerla” (M. Latini, Günther Anders: i limiti vanno assaltati, “il manifesto”, sabato 7 luglio 2018, p. 10).
Milioni di futuri annullati in pochi anni (Seconda Guerra Mondiale – Vietnam – Siria – etc.). E chi ci ripaga? Chi ce li restituisce? Nessuno. E soprattutto: che cosa è diventato il mondo, che ne sarà del mondo, senza quei futuri?
“Separazione – / le spighe dell’orzo / tormentate tra le dita” (Bashō).
Un testo come un diluvio, come una ramificazione di interferenze – intersezione di piani (“una composizione senza capo né coda”) – mentre stai parlando di qualcosa, di un argomento, salta fuori un dettaglio che diventa pian piano una digressione vera e propria, e così via – un testo che è un’intera sequenza di digressioni – voci che si accavallano, pensieri che scavallano (come avviene di solito nel cervello) – la riproduzione fedele del flusso che abbiamo in testa.
***
In treno per Verona, 9 luglio 2018. Il sottopassaggio giallo della stazione completamente demolito – vado avanti con la mente, le cinque di mattina, il treno per Verona, gli occhialini sullo scaffale della libreria – il ronzio industrial dei Nine Inch Nails, contaminato con il jazz dell’ultimo Bowie – scalato, rombo.
L’arte sottile di inoltrare l’arte nel tessuto della realtà, premere su questa parete, prima dolcemente poi sempre più violento – il motivo per cui non valgono i criteri della curatela tradizionale, così come è stata portata avanti nell’ultimo ventennio, è semplice: si tratta proprio del processo opposto: non un regime protetto, uno spazio neutro in cui “esibire” gli oggetti e le trovate dell’arte contemporanea, ma una rete fitta di nervi, di gesti, di rapporti COME FILAMENTI tra le cose – in cui “nascondere”, in cui “far scomparire” l’arte. Questa operazione richiede quindi un costante ragionamento controintuitivo, e una pratica di apparente depotenziamento dell’arte volta però alla sua trasformazione evolutiva.
***
Prendi la penna – la dissociazione – tutto finto, tutto simulato, una vita/fantasma, niente (o quasi niente) di reale, solo un grande accumulo di cianfrusaglie e palta, un mare di palta, come scrive Dick “la palta scaccia sempre la non-palta” – e nell’accumulo di esperienze, fatti, idee, libri letti e dischi ascoltati si inoltra pian piano una gran tristezza, che non è detto sia un male dal momento che la tristezza, la tristezza serena è un po’ la salsa, il condimento della vita, è ciò che distingue l’umano (quantomeno l’umano civilizzato, alfabetizzato, raziocinante: mediterraneo) dal neoumano del tutto nazificato e ingrugnito che dilaga nel presente, che lo domina e che vi si è installato come se dovesse rimanerci per sempre, come se questo fosse roba sua, sempre con il telefonino in mano (a guardare cosa??), sempre con il tono di voce troppo alto – torna indietro, si inoltra dicevo una gran tristezza, tutto si blocca nella Summer Theory e accede a un altro livello, perché poi stiamo parlando di questo e soltanto di questo, girandoci intorno e volteggiandoci sopra, come quando aggiri in continuazione qualcosa di
SCOMODO
PERICOLOSO
IMPREVISTO,
qualcosa che ti spinge fuori dalla tua area solita, qualcosa anche di doloroso a volte, come no, è la chiave di tutto, e quindi si tratta in fondo di spingere contro quella superficie, affrontare e attraversare quel nocciolo duro e disagevole, la storia è questa qui, l’arte è uno strumento come un altro – forse migliore, forse del tutto inadeguato (ma non importa) – per premere finalmente, per uscire, per dire, per non fare finta di niente: “Why does my heart / feel so bad? / Why does my soul / feel so bad?” (Moby).
‒ Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati