Scene dalla Grande Stagione (IV)
È forse la possibilità della possibilità a far paura? Se lo chiede Christian Caliandro nel nuovo capitolo della “Grande Stagione”.
Disintegrato. Nel momento in cui tutto crolla, tutto si trasforma – crolli e ti trasformi anche tu. Se vuoi facciamo l’intervista. Riconnetti. La manifestazione dell’altro giorno, un quartiere rappresentato come diviso perché questa rappresentazione è funzionale a un racconto, a una retorica – le retoriche impazzite infuriano, scivolano l’una sull’altra come i miei pensieri sfilacciati, un salto improvviso negli Anni Settanta con i social network di mezzo (la distopia dietro l’angolo) a condire e infestare e avvelenare ogni discorso, ogni discussione attorno a un tavolo. Non puoi più parlare di politica perché sennò la gente si arrabbia, pare l’invasione degli ultracorpi, ogni volta che tiri fuori un argomento qualcuno sta lì col fucile puntato pronto ad accusarti – e allora ti ritrovi qui, con la pioggia fuori che bagna le strade del quartiere una volta di moda e oggi degradato, oggi lo specchio di ciò che sta accadendo, che tenti di raccogliere le idee in un attimo, di radunare una sequenza possibile, la sensazione per esempio di essere in due luoghi contemporaneamente, credi che ci sia qualcosa di scritto altrove da poter recuperare e invece non è così, non c’è nulla, ogni volta ricominci da capo e non sai come (e se) verrà fuori, non importa nulla come verrà perché il punto è vivere qui e ora, essere presenti senza forse più scomparire, essere solo presenti e ti accorgi che è uno sforzo immenso perché la “scomparsa” è anche un velo, una forma di protezione estrema e raffinata nei confronti dell’esperienza, del reale quotidiano, della sua durezza e mancanza fondamentale di elasticità.
La presenza dunque – tua, degli altri, degli eventi – ti rivela improvvisamente quanto può risultare difficile e traumatico essere nello sconvolgimento attuale, valutare e considerare questa presenza, questa incarnazione del fantasma. (Mi ricordo, sì mi ricordo di questo “fantasma concreto” che ho elaborato come figura ideale cinque anni fa, preparando la seconda mostra all’American Academy in Rome; ecco quello che scrivevo allora: “Un fantasma incarnato e di cemento (concrete) – il nostro presente distopico e metafisico; paradossalmente più solido di una realtà che tende a sfaldarsi, sfrangiarsi, essiccarsi. È una condizione al di là della confusione, del caos, della moda: è la condizione di un fantasma dotato di corpo, di sensi, di sensualità, di un cervello che comprende. Il fantasma corporeo è l’esatto opposto di un corpo che svanisce, che tende a evaporare: dall’evanescenza, dall’incorporeità, dall’immaterialità esso tende infatti alla concretezza, alla fisicità. Il fantasma concreto è dunque un movimento: una tensione, un meccanismo orientato. Un’atmosfera fatta di oscurità controllata e dominata perfettamente.” Ma come si fa davvero a ‘controllare e dominare perfettamente’ l’oscurità, senza diventare oscurità?).
“L’ordine di scuderia arriva da… Per una volta l’invito rivolto ai suoi (oltre che, con fatica, a se stesso) è a non fiatare: silenzio. Non una sola parola sullo stop alla… rilanciato dal “socio”… Perché se dovesse replicare, verrebbe giù tutto. Legge le dichiarazioni del capo…” (Carmelo Lopapa, la Repubblica, 27 ottobre 2018).
La Grande Stagione è quella in cui “verrebbe giù tutto”, in cui è già venuto giù tutto – svolte dietro l’angolo, rese dei conti, fiction che diventano imprevedibilmente non-fiction, incubi che prendono piede e sogni che si avverano; tutt’uno con la presa sulla realtà, e mentre lo scrivi ti arriva un messaggio del tuo amico che parla proprio di “autenticità”, di ciò che tu definisci come “vernacolare” e che vai scoprendo in questi giorni, in queste settimane, in questi mesi, l’oggetto maggiore del tuo interesse attuale che assorbe e comprende ogni cosa, che rappresenta (forse) la via di fuga dalle finzioni dell’arte e della società. Piove, piove fuori ma l’acqua non pulisce la sozzura che si è accumulata nei decenni, il veleno che corrode le narrazioni e le comunità, ieri sera M. ci parlava del popolo che è scomparso, dell’amarezza sottile propria dei film Anni Settanta come C’eravamo tanto amati (il sorriso e le battute di Nino Manfredi…) e che forse sta tornando, dopo venti-trent’anni di cinismo e di negazione, la capacità italiana di tirar fuori con ironia cose vere e profonde, i modi di dire fulminanti e feroci che rivelano l’umanità contro la correttezza, contro la repressione, contro la grettezza, la connessione intima – da recuperare, da ricostruire ‒ degli autori con la dimensione popolare: ed è tutto vero, sono gli argomenti di cui non solo mi ritrovo spesso a parlare con persone a me vicine ma che emergono spontaneamente da un fondo, da un gorgo, da un pozzo comune ed è forse questo che fa paura: la possibilità di spalancare una possibilità.
‒ Christian Caliandro
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