Il tragitto d’un ministero. L’editoriale di Antonio Natali
L’ex direttore degli Uffizi sottolinea le positive conseguenze dell’allontanamento del turismo dal Ministero dei beni e delle attività culturali.
Di politiche agricole so poco o nulla; di turismo qualcosa so, ma non incide su quanto sto per dire riguardo alla loro commistione nel medesimo dicastero. Per il quale suggerisco la dicitura di Ministero dell’agriturismo; invenzione lessicale ovvia, che non credo d’esser l’unico ad aver proposto per il nuovo nato. Ignoro cosa possa sortire da quest’amalgama; però un gran risultato s’è bell’e ottenuto sganciando finalmente il ‘turismo’ dai ‘beni culturali’; che, liberati dall’obbligo di guadagnarsi da vivere, recuperano la vocazione educativa ch’è loro peculiare. L’abbinamento dei ‘beni culturali’ al turismo – finora vigente – era espressione dell’ideologia sottesa all’amministrazione del patrimonio d’arte in Italia, chiamato quasi esclusivamente a esser cardine dell’economia nazionale.
C’è stato un tempo in cui la sua gestione era affidata a una divisione del Ministero della Pubblica Istruzione, denominata ‘Antichità e Belle Arti’; e chiunque – evocandola – per forza ne cavava il convincimento che per lo Stato italiano il patrimonio d’arte fosse connesso all’educazione. Poi nel 1975 Giovanni Spadolini, a buon diritto reputando che quello stesso patrimonio meritasse una struttura a esso unicamente votata, creò il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, da tutti salutato come l’esito d’una coscienza storica nuova e più matura. Una ventina d’anni dopo, il titolo del dicastero diventò Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Aggiunta ch’era in sé ammissibile e perfino utile se inquadrata nel contesto di un’aspirazione a coordinare le imprese intellettuali curate dallo Stato e a sostenere quelle private che fossero vòlte alla promozione e alla valorizzazione dei beni del Paese. Però – visto che i tempi principiavano a virare nel verso d’una lettura esclusivamente finanziaria del concetto di valorizzazione – a molti venne il sospetto che quell’addizione verbale ne fosse un sintomo preoccupante. E difatti nel 2013 un’altra se ne registra nella titolazione ministeriale; e fu il ‘turismo’, giustappunto.
“Il Ministero dell’agriturismo è il primo segnale d’un risarcimento alla cultura da parte dello Stato”.
La nuova intestazione suonava Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo; epigrafe che veniva a soddisfare chi finalmente poteva dare un senso pratico all’esistenza d’un patrimonio d’arte che pareva soltanto gravare sul bilancio statale e irritava invece chi nello stesso patrimonio vedeva la memoria d’un popolo, la sua coscienza, l’eredità ricca gratuitamente pervenutaci. Letture diverse d’uno stesso lemma. Letture legate a ideologie differenti e financo antitetiche. La seconda sarà di sicuro definita superata e vecchia. E io voglio dare una mano ai tanti che la giudicheranno tale, riferendo con ammirazione parole scritte nel 1777 da Giuseppe Pelli Bencivenni (pensiero vecchio, dunque; anzi vecchissimo): “Nell’educazione dei giovani dovrebbe entrare un’ostensione di statue, delle pitture e delle altre rarità che sono depositate alla R. Galleria e l’occhio si avvezzerebbe a trovare il bello ed i ricchi s’invoglierebbero di un lusso nobile che varrebbe più della magnificenza nelle livree, nei cavalli e in tante altre frivolezze, che sono esterni ornamenti di parata per abbagliare il volgo, ma che non portano a presunzione di cultura in coloro che se ne investono”. Dieci anni dopo aggiungeva: “Io credo che un popolo assuefatto a trovar sempre avanti di se il bello sia più intelligente di un popolo immerso nella barbarie”. La “Galleria” cui allude il Pelli Bencivenni è quella degli Uffizi, di cui fu illuminato direttore; quella stessa che di recente – proprio per svecchiare e ammodernare – è stata inopinatamente ribattezzata ‘Galleria delle statue e delle pitture’. Da ‘rottamato’ non mi resta che dare il benvenuto al Ministero dell’agriturismo, primo segnale d’un risarcimento alla cultura da parte dello Stato.
‒ Antonio Natali
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #12
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