L’artista è nel mondo

Carmelania Bracco riflette sul senso dell’arte oggi. Invitando a rompere definitivamente catene imposte e limiti dati per certi.

Cammino per strada, giro per i corridoi di un museo, sto in piedi a un concerto. Perdo totalmente la consapevolezza del mio corpo. Lui va, continua a camminare, a vedere, a girare la testa prima di attraversare, ma senza che io gli dia i comandi, in automatico. Ci siamo davvero abituati a tutto questo. Lo stiamo dando per scontato.
Mi guardo intorno e cerco di capirci qualcosa. Lo faccio spesso. Mi piace visitare mostre e leggere libri di autori contemporanei. Mi piace cercare di intuire il loro percorso di vita, qual è il loro artista preferito e qual è, nella loro testa, la loro idea di arte. E anche vedere come la storia influenza l’arte, come gli avvenimenti tragici, perché ne avvengono in continuazione e non riusciamo ad assimilarli, si mescolano all’inchiostro e alle immagini, alle sensazioni che poi si trasformano in cose reali, tangibili.
Non è vero che l’arte ha esaurito ciò che aveva da dire. Non è vero che non può esserci nulla di nuovo, che tutto è superato, andato, terminato. Che gli artisti sono persone sole, fuori dal mondo, che vivono in un mondo loro, non reale. Non è vero.
L’artista è nel mondo più di qualsiasi altra persona. L’artista è nel mondo e opera sul mondo. Sul territorio, su ciò che c’è, o meglio, su ciò che rimane. Perché non c’è più molto in piedi. Sta crollando tutto. O è già crollato. Si è sgretolato dopo essere imploso. Tutti i limiti, i recinti che avevamo costruito, le catene che usavamo come coperte di notte sono rimaste in piedi a proteggere il nulla. Non c’è più nulla, solo un cumulo di macerie. Polvere e saliva. Praticamente oro.
Sì, oro. Pietre preziose accumulate, ammassate, in pezzi, sbriciolate. Ma preziose.
Non ci resta che distruggere anche le staccionate.
Distruggere tutto e tutti. Colpire forte chi ci dice che non siamo in grado, che dobbiamo farci da parte perché il nostro posto non è qui ma altrove.
No, altrove c’è già tutto. È qui che dobbiamo stare, è qui che voglio stare. A impastare le macerie coi colori e farci delle case in cui andare a vivere. La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo. La pietra d’angolo.
Pie-tra d’an-go-lo.

Russell Drysdale, The rabbiters, 1947. National Gallery of Victoria, Melbourne © Courtesy Russell Drysdale Estate

Russell Drysdale, The rabbiters, 1947. National Gallery of Victoria, Melbourne © Courtesy Russell Drysdale Estate

Non siamo costretti a stare seduti nell’angolo. Non dobbiamo. L’artista si deve alzare, deve scattare quando gli dicono di rimanere fermo. Che va bene anche così, che va bene che vengano riproposte sempre le stesse cose, in maniera leggermente diversa, con un mezzo diverso, magari, tecnologico e modernissimo. Che non è il momento.
L’Arte non ha giorni, periodi, momenti in cui è sterile e altri in cui è fiorente, fertile, bellissima.
Non è mai bellissima.
L’Arte non ha nemmeno nomi, caratteri diversi, manifestazioni diverse, è una, una e basta, sempre presente, sempre allo stesso modo in ogni momento dell’esistenza del mondo e anche oltre.
L’Arte non chiede spiegazioni, non cerca applausi. Neppure consensi. La riconosci subito, ne senti l’odore anche oltre lo spazio, oltre gli schermi, le voci, i racconti, oltre la pittura, la matita, la carta, oltre il soggetto che c’è dietro, ammesso ci sia un soggetto, oltre l’illusione del tempo, che pensi di dover impiegare al meglio e che nel frattempo è andato giù un po’ oltre e il tuo pensiero è già invecchiato, diventato obsoleto, irrealizzabile. Morto. Non possiamo farci fregare così. Non c’è tempo, non c’è tempo.
Ma l’Arte c’è, c’è eccome e pulsa, vibra, scappa, sbatte, suona, balla, ride forte, ride a crepapelle, gode, poi piange, urla, scatta, cade, sbanda. Prima è amara, acida e allo stesso tempo disgustosamente reale. Diversa, uguale a niente, uguale a te che sei tutto e niente.
Poi si fa dolce. Anzi, non si fa dolce, sei tu a sentirla dolce, la tua mente la sente dolce in ogni meandro, dolce a lenire i solchi delle catene che ti sei costruito, che ti hanno costruito e regalato nel momento in cui sei stato messo al mondo. Possiamo essere liberi, te lo giuro.
Possiamo provare a fare Arte, possiamo addirittura coincidere con la nostra Arte. È una via, l’Arte, non misurabile, non fisica, non asfaltata.
Il primo sorriso dopo che hai pianto.

***

Quand’è che abbiamo costruito tutto questo, che abbiamo trasformato la vita in un artificio? Quando abbiamo dato un nome a tutto, a ogni cosa, l’abbiamo catalogata, etichettata, estratta dal suo contesto originario e inserita in un archivio di metallo?
E perché continui a dirmi “ora” se non c’è un “ora”, se non si può intrappolare in una parola il tempo e tantomeno il presente, che si divincola, si fa trasparente, silenzioso, inesistente?

Carmelania Bracco

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #45

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Carmelania Bracco

Carmelania Bracco

Carmelania Bracco (1997), laureata nel 2018 in Decorazione presso l'Accademia di Belle Arti di Foggia con una tesi sperimentale sul postmodernismo, frequenta il Biennio di Decorazione Arte Ambientale. È interessata all'arte contemporanea e al rapporto che essa intrattiene con la…

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