Adorno, Heidegger, Wittgenstein. La filosofia in mostra a Venezia
Fondazione Prada, Venezia – fino al 25 novembre 2018. Una mostra per palati finissimi è allestita a Ca’ Corner della Regina, sede veneziana della Fondazione Prada. A partire delle tre “capanne” di altrettanti filosofi, per ragionare sullo spazio del pensiero.
Al di là delle discussioni “ideologiche” più o meno interessanti sul ruolo del pubblico e del privato nella cultura, c’è un punto fermo che difficilmente può essere contestato: alcune iniziative, alcuni eventi, alcune mostre possono essere organizzati solo dai privati. Per molteplici ragioni, in primis il non dover giustificare investimenti e numeri.
LA FILOSOFIA DI PRADA
Nella fattispecie: soltanto un’istituzione come la Fondazione Prada può permettersi – il verbo va inteso in tutta la sua estensione semantica – di proporre una mostra che ha al suo cuore le dimore di Martin Heidegger, Theodor Adorno e Ludwig Wittgenstein.
Perché, almeno sulla carta, è una mostra che non può attrarre le folle, è evidentemente di nicchia, parla a un pubblico di specialisti e curiosi per natura, rappresentanti una percentuale minuscola dei visitatori potenziali.
Che poi tutte queste premesse possano essere smentite, è fuori di dubbio, ma il rischio è altissimo.
IL CORPO DEL PENSIERO
Accettata questa premessa, in cosa consiste la mostra Machines à penser (titolo che omaggia la machine-à-habiter di Le Corbusier) allestita nella sede veneziana della Fondazione Prada? In un’ideale prosecuzione di Post Zang Tumb Tuum, ovvero “esaminare il contesto culturale, sociale, spaziale e rituale in cui si sviluppa l’attività intellettuale”, come scrivono Miuccia Prada e Patrizio Bertelli nell’introduzione al libro-catalogo che accompagna la rassegna (e qui non possiamo che ribadire l’importanza di queste pubblicazioni, enormemente distanti dal mero catalogo illustrativo).
In altre parole, si tratta di recuperare quella dimensione umana che troppo a lungo – nell’arte come nella filosofia – è stata obliterata, come necessario e sacrosanto baluardo contro le derive di certo psicologismo e sociologismo, ma che, come avviene sempre nella logica azione-reazione, ha reso completamente astratti, ultraterreni e sovratemporali i pensatori e gli intellettuali.
LO SPAZIO DEL PENSIERO
La scelta del curatore Dieter Roelstraete è stata dunque radicale e al contempo semplice: concentrarsi sui luoghi fisici di produzione di tre specifiche opere scritte da altrettanti intellettuali. In particolare: la baita di Skjolden, nel nord della Norvegia, in cui Wittgenstein ha elaborato il Tractatus Logico-Philosophicus; la baita di Todtnauberg, nella Foresta Nera, in cui Heidegger ha elaborato Essere e tempo; i luoghi paradossalmente eremitici dell’esilio losangelino in cui Adorno ha elaborato Minima Moralia.
Questi spazi di pensiero sono riprodotti nelle sale al piano nobile di Ca’ Corner della Regina. Sono architetture (non è un caso che la mostra abbia coinciso con la Biennale di Architettura) che in primo luogo comunicano il loro carattere monastico – spoglio e severo –, il loro essere grado zero dell’abitare, come scriveva Gaston Bachelard nel 1958, puntualmente citato da Roelstraete.
E qui risiede il primo collegamento concettual-visivo, ossia alla condizione eremitica di un pensatore iconico in questo senso, San Girolamo, rappresentato nella più parte dei casi in una grotta a Betlemme o nel deserto, intento a tradurre in latino la Bibbia (iconografia ribadita attraverso i dipinti cinque-secenteschi di Bartolomeo Montagna, Hendrick van Steenwyck il Giovane, Vincenzo Catena e Albrecht Dürer).
LIBRI, FOTOGRAFIE, OPERE
Dentro, intorno, al piano inferiore, questi luoghi, questi libri (feticisticamente – non poteva essere diversamente – esposti in edizioni prime e successive, collocati all’interno di un magnifico studiolo del 1480 ca.), un manipolo di artisti contemporanei entrano in risonanza con le parole e le cose, e con il racconto fotografico dell’intersezione fra parole e cose – e vita.
Prendiamo il caso di Martin Heidegger: le fotografie scattate da Digne Meller Marcovicz fra 1966 e 1968, quando il filosofo si è ritirato definitivamente nella Foresta Nera (non apriamo qui l’immensa questione sui rapporti con l’apparato nazista, ma si osservi bene l’opera di Joseph Semah, Tracing Martin Heidegger’s hut and Paul Celan’s clouds, 2010), risuonano dentro e fuori il progetto Condensed Heidegger’s Hut (2009) di Paolo Chiasera, artista fra i più intelligenti (non c’è bisogno di utilizzare un altro aggettivo) di quest’epoca, dal rogo della riproduzione in scala 1:1 della baita ai disegni e alle sculture immediatamente successivi.
Con meccanismi simili e differenti, altri artisti intersecano le loro traiettorie con gli appartenenti a questa filosofica trinità. Impossibile citarli tutti, se non en passant almeno accennare alle sculture di Goshka Macuga (2018), ritratti a prima vista tradizionali, le cui “fioriture” contengono tuttavia un intero mondo ermeneutico.
– Marco Enrico Giacomelli
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