Black Hole. Riflessioni sulla materia a Bergamo
GAMeC, Bergamo ‒ fino al 6 gennaio 2019. La componente materica è al centro dell’itinerario espositivo ideato da Lorenzo Giusti e Sara Fumagalli per la sede bergamasca. Avviando una trilogia al confine tra arte e scienza.
È una autentica “Trilogia della materia” quella inaugurata alla GAMeC di Bergamo dalla mostra Black Hole. Negli intenti dichiarati fra le pagine del catalogo da Lorenzo Giusti, curatore della prima tappa espositiva insieme a Sara Fumagalli, c’è la restituzione “attraverso la visione degli artisti” della “profonda complessità insita nella materia, della sua natura instabile e dinamica”.
Nodo focale di qualsiasi pratica creativa, la materia è alla base di quesiti e indagini che impegnano, sin dai tempi più remoti, filosofi, artisti e uomini di scienza, lungo stratificazioni di teorie, scoperte e momentanei vicoli ciechi che hanno fatto la storia della micro e macro evoluzione. Anche la mostra bergamasca procede per stratificazioni, “aggredendo” quelle della materia per raggiungerne il cuore, riemergendo, poi, e allontanandosi di schianto verso altezze e confini capaci di sfociare nell’invisibile. Mantenendosi saldamente in equilibrio sul terreno dell’arte, ma lambendo in maniera consapevole i limiti della scienza, l’itinerario in tre sezioni sviluppato sui due piani della Galleria si dipana nel solco di altrettante direttrici: Informe, Uomo-Materia e Invisibile, quasi a tracciare una linea netta che dalla materia in quanto “entità alternativa alla forma”, come la definisce Giusti, raggiunge la finitudine antropomorfa e si inerpica, sconfinando, su ciò che è invisibile, oltre il “perimetro” della materia.
DENTRO LA MATERIA
La materia in quanto tale, indenne alle sollecitazioni formali, detona nel magnifico Cretto di Burri che, all’interno della prima sala, risucchia letteralmente lo sguardo in una inconsueta fenditura capace di squarciare, dall’alto al basso, il nero pece della composizione. Lo stesso nero che avvolge buona parte del percorso, dentro e fuori le opere ‒ il richiamo alla “materia oscura” risuona in ogni stanza ‒, rimbalzando tra i Concetti spaziali di Lucio Fontana, le Combustioni di Burri e un inaspettato, e potentissimo, Piero Manzoni, che con il Senza titolo del 1957 mette in gioco energie e soluzioni visive ben lontane dal candido Achrome dell’anno successivo. Eppure anche il candore abbacinante di un Achrome o l’oro rossiccio della felce che campeggia al centro di Geheimnis der Farne di Anselm Kiefer rendono ancora più forte il processo di immersione nella materia, grazie a elementi naturali, “grezzi”, una sorta di grado zero della forma. Addensamenti organici che convergono nel plumbeo Veil of Isis 13 di Milton Resnick e in Hearth and page di Antoni Tàpies, in Surface d’empaquetage di Christo e in January 10 di Ryan Sullivan, nel Senza titolo di Carol Rama e nel cemento armato inciso ai limiti della scarificazione da Luca Monterastelli. A conferma di una riflessione trasversale sulla materia, che mette in scacco qualsiasi cronologia.
DALL’UOMO ALL’INVISIBILITÀ
La figura umana svolge, in questo contesto, un ruolo chiave, vestendo la materia di fisicità. I corpi pieni, materici appunto, tratteggiati da Auguste Rodin e Medardo Rosso danno il via a una combinazione di linee e colori, di volti e sembianze appena riconoscibili trasformati in massa viva da Alberto Giacometti e da Leoncillo, con i suoi bagliori smaltati su terracotta, da Hans Josephsohn, William Tucker e Simone Fattal, ma anche dagli esiti pittorici di Karel Appel e Asger Jorn.
Il passaggio verso l’Invisibile è, ancora una volta, logico e fluido: dopo il cuore e la pelle della materia, il traguardo è la sua parte più nascosta, non visibile a occhio nudo e in connessione con la sfera dell’atomo. Su questi binari si muovono le ricerche dell’Arte Nucleare ‒ con alcune prove di Joe Colombo da gustarsi per interi minuti ‒ e con le geniali Texturologie di Jean Dubuffet, uno sguardo ravvicinato sull’infinitamente piccolo che diventa infinitamente grande, proprio come accade all’ipnotico Autoritratto di Gino De Dominicis, la cui estetica di riverberi concentrici echeggia quelli di un buco nero.
ARTE E SCIENZA
I buchi neri, dunque, inizio e fine di un percorso che termina facendo immergere lo sguardo nell’installazione site specific di Evelina Domnitch e Dmitry Gelfand, sviluppata insieme al Meru Art*Science Research Program di Meru ‒ Fondazione Medolago Ruggeri per lo Spazio Zero della GAMeC: l’opera ambientale sintetizza in maniera visiva l’interazione di due buchi neri, nella dimensione in cui la materia dell’universo collassa su se stessa e si rigenera. Il tutto attraverso un acquario di due metri, un portale che induce la formazione di una coppia di vortici sulla superficie liquida e una luce laser. Conglomerati di buio in una distesa iridescente.
‒ Arianna Testino
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