Le Imprese Culturali e Creative tra finanza, economia reale e assistenzialismo
Stefano Monti mette a confronto i meccanismi economici delle grandi ICC con quelli delle imprese più piccole. Spronando queste ultime ad adottare logiche maggiormente imprenditoriali.
Il nuovo modello industriale dei “big” delle cosiddette ICC (come Amazon e Google) tra le varie e numerose opportunità, presenta anche due solide minacce all’ecosistema economico.
Partiamo dall’inizio: negli ultimi vent’anni l’economia finanziaria è diventata sempre più importante di quella reale.
Nel 2014, Marco Panara su La Repubblica scriveva che il valore della ricchezza finanziaria era tredici volte superiore al Prodotto Lordo Mondiale. E da allora le cose non sono cambiate di molto.
Per anni, finanza ed economia reale hanno seguito percorsi che non sempre si toccavano e che andavano spesso a velocità differenti: utilizzando come mera base l’economia reale, la finanza è riuscita a creare (e distruggere) molto più valore, in molto meno tempo.
Da questo contesto sono nate grandi multinazionali, che spesso affondano le loro radici nell’economia dell’informazione e della cultura, e che devono molto del loro successo alla dimensione finanziaria della loro attività.
Luca De Biase, nel 2012, su Il Sole 24 Ore, parlando della differenza fra valore reale e finanziario di Facebook, indicava come la capitalizzazione del social network fosse cento volte maggiore rispetto all’utile.
Sempre su Il Sole 24 Ore, nel 2018, Barlaam pubblica un articolo relativo ad Amazon indicando come la società abbia un utile loro di 3,8 miliardi di dollari e una capitalizzazione in borsa pari a 791 miliardi di dollari (e da poco ha superato quota mille).
Avere un tale valore di capitalizzazione implica necessariamente una spinta alla crescita. Tale crescita coinvolge tutto, e può arrivare a fornire beni e sevizi molto differenti tra loro a prezzi ben più ridotti di altri competitor (si pensi a Google e tutti i servizi B2B sia digitali che strutturali).
La conseguenza diretta di questo processo è visibile a tutti: se la maggiore fonte di capitalizzazione non è legata all’economia reale, allora anche i fondamentali dell’impresa (come gli utili) passano in secondo piano e questo si traduce anche in una sostanziale riduzione dei prezzi.
Questa riduzione dei prezzi diventa quindi una grande barriera d’ingresso al mercato perché soltanto le imprese che possono contare su un flusso di capitali ulteriore rispetto a quello generato direttamente dall’attività caratteristica dell’impresa possono proporre prezzi concorrenziali. Questo, a sua volta, genera un mercato sostanzialmente oligopolistico in cui le imprese piccole guardano questi giganti come una sorta di “Stato” al quale sperano di vendere i propri prodotti con una strategia tipica di exit.
“Se vogliamo davvero che il settore delle ICC divenga motrice di crescita, dobbiamo fare in modo che esso adotti logiche imprenditoriali”.
Che ruolo possono giocare le ICC in questo grande mercato globale ed extra-reale?
In primo luogo sarebbe necessario riuscire a comprendere il perimetro di queste imprese, così che si possa avviare una reale conoscenza del settore. Questo permetterebbe anche la realizzazione di politiche industriali efficaci, volte a favorire l’emersione di nuovi modelli di business in grado di generare innovazione anche in un settore che, almeno nel nostro Paese, non brilla per capacità imprenditoriali.
Il secondo intervento, che diverrebbe naturale prosecuzione del primo, sarebbe quello di impostare una politica “finanziaria” per il settore. Una politica che sia in grado di congiungere un comparto (in cui spesso mancano competenze di natura economica e finanziaria) con potenziali investitori.
A cascata deriverebbero un bel po’ di novità: l’interesse diretto di investitori esterni porterebbe a una maggiore strutturazione strategica delle piccole e medie imprese e da ciò deriverebbe un maggior controllo sulla rendicontazione. Tale controllo porterebbe a una riduzione degli sprechi (sia organizzativi, ossia derivanti da una condizione di sub-efficienza delle imprese) sia “adattivi” (vale a dire derivanti dallo scenario economico di riferimento).
Basti pensare a quante risorse pubbliche si sprecano per la mancanza di coerenza tra obiettivi delle PMI e visioni strategiche nazionali e comunitarie.
Qualunque PMI italiana legata al settore insegue la chimera dei progetti europei. Ma i progetti europei non sono sempre coerenti con le esigenze di sviluppo del settore. Per rispondere alle varie call, le PMI si trovano a dover modificare le proprie attività e questo comporta una duplice distorsione. La prima è che un’impresa, per raggiungere i fondi (talvolta ingenti) finisce con il dedicare tutto il personale al progetto europeo (riducendo investimenti nelle attività core di impresa). La seconda è che, così facendo, l’impresa “dipende” da questi fondi. Questo non è sviluppo d’impresa, è un nuovo modo di fare assistenzialismo. E assistenzialismo e innovazione non vanno mai molto d’accordo.
Se vogliamo davvero che il settore delle ICC divenga motrice di crescita, dobbiamo fare in modo che esso adotti logiche imprenditoriali. Altrimenti smettiamola con la retorica e trasformiamo tutte le imprese in associazioni.
‒ Stefano Monti
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