Equilibri precari. Il lavoro culturale in Italia
Un gruppo di stagisti reclutati dalla 46esima edizione del Santarcangelo Festival ha dato il via a un progetto che riflette sulle condizioni lavorative nel campo della cultura in Italia. Tema decisamente attuale, ma non ancora affrontato in maniera adeguata dalle istituzioni.
Tutto ha inizio nel 2016: è la 46esima edizione di Santarcangelo Festival e gli stagisti di quell’anno riescono a ottenere una parte del Fondo Speculativo di Provvidenza (progetto artistico di Luigi Coppola e Christophe Meierhans) con l’intento di investire questa somma di denaro comune in un progetto volto a riflettere sul rapporto domanda/offerta nel mercato del lavoro culturale in Italia. A marzo 2017 destinano il fondo a una ricerca tecnica e critica sulle caratteristiche dell’occupazione dei giovani nel settore dello spettacolo dal vivo, che commissionano a Tools For Culture.
Equilibri precari è stato pensato come una riflessione corale, perché le storie e le soggettività dei protagonisti che lo animano ci riguardano, più o meno direttamente, tutti. Non è solo questione di riconoscimento professionale, ma anche e soprattutto di occupazione e di equo trattamento. E sì, quindi di precarietà. Una condizione che riteniamo emblematica perché, pur non esclusiva del settore artistico e culturale, in esso manifesta in special modo le derive dovute alla carenza di una cornice politica e legislativa chiara rispetto all’esigenza di mettere a fuoco il rapporto tra istituzioni, imprese e lavoratori culturali.
Per cominciare, poniamo il caso: che cosa hanno in comune un attore di teatro, un artigiano per la produzione industriale, una segretaria di edizione, un manager museale e un tecnico di festival? Secondo l’Unesco tutti si occupano di cultura. Già da questa esemplificazione si intuisce l’eterogeneità delle categorie coinvolte e l’aleatorietà a cui inevitabilmente sono destinate certe fattispecie. Ma soprattutto, per considerare professionale un’occupazione è necessario prima di tutto un riconoscimento sociale, senza il quale il derivato legislativo non può che collidere col reale.
In Italia purtroppo è manifesta la diffidenza nell’approcciare la cultura in quanto attività produttiva, e questo confina i lavoratori del settore in una zona grigia al di sotto del profilo della professionalità. Difatti, pur costituendo una parte importante dell’economia e della mano d’opera del nostro Paese, a livello sociale si continua ad avere scarsa comprensione di chi siano i lavoratori culturali, né tantomeno si conosce come questi svolgano la propria attività, con ovvie ripercussioni sulle politiche che li riguardano, che ripetono ritardi correttivi in costante contrasto con la natura mutevole del lavoro culturale e con i bisogni specifici del settore.
Parliamo peraltro di un comparto il cui potenziamento incide in modo significativo sulla società: forse ad alcuni non sembrerebbe, ma quando andiamo al cinema, a teatro, leggiamo un libro, visitiamo una mostra, assistiamo a un concerto, acquistiamo un videogioco, stiamo in qualche misura condividendo con creativi e tecnici dietro le quinte le nostre aspettative e prospettive sul futuro. Tutto sommato, è questa intrinseca predisposizione alla trasformazione e al ripensamento che determina una speciale esigenza di libertà e flessibilità per i professionisti del settore.
IN BILICO, OVVERO COME RESISTERE AL PRECARIATO
La specifica anomalia del sistema culturale – tanto sotto il profilo soggettivo della varietà delle professioni e delle mansioni, quanto sotto quello oggettivo di realtà in evoluzione – lo caratterizza come un continuo contraddittorio tra esigenze di flessibilità e di stabilità. Vorremmo identificare in questo tratto un punto di forza, ma bisogna riconoscere che finora proprio un’inesatta lettura delle dinamiche del settore ha comportato esiti sfavorevoli sia sul fronte datoriale sia su quello dei lavoratori.
La condizione “atipica” – ma diffusa e accettata – in cui operano i lavoratori culturali, acuita dal carattere per così dire fiduciario dei canali per reperire contatti in merito a eventuali lavori, si dimostra invero svantaggiosa per tutti, considerato il dispendio di risorse qualificate ed energie di volta in volta rinnovate ma non incardinate in un discorso organico e continuativo.
Nessun J’accuse dunque, perché per esperienza diretta conosciamo le difficoltà in cui le stesse imprese e organizzazioni che producono cultura si trovano a operare, e gomito a gomito si barcamenano con i talenti che lavorano con loro per mantenerne vive le capacità, la forza e la determinazione. In questo contesto si inseriscono le storie dei protagonisti di Equilibri precari, tutti giovani under 30 le cui testimonianze possono però valere tanto per i coetanei del settore creativo e culturale in senso lato che per i colleghi over 30 professionisti in ambito teatrale.
“In Italia purtroppo è manifesta la diffidenza nell’approcciare la cultura in quanto attività produttiva, e questo confina i lavoratori del settore in una zona grigia al di sotto del profilo della professionalità”.
Partendo dall’assunto che dal punto di vista legislativo “precario” resta un concetto tuttora privo di definizione malgrado l’ovvia evidenza, procediamo da valutazioni di tipo soggettivo a contrario sensu (riguardo al concetto di stabilità) per individuare il precario come un lavoratore sottoposto a contratti a basse tutele e/o a bassa remunerazione. È a oggi la figura di indeterminazione per eccellenza, che nel settore artistico e culturale è principalmente riconducibile dapprima all’utilizzo di forme di volontariato e di apprendistato, per poi conformarsi in lavoro autonomo o in lavoro subordinato a tempo parziale.
Con riferimento a queste ultime due ipotesi, il primo, pur riflettendo le esigenze di indipendenza e flessibilità del professionista, rappresenta spesso la scelta meno sofferta tra la disoccupazione e lo sfruttamento, in quanto ancora oggi priva il lavoratore dello statuto protettivo tipico del rapporto subordinato, escludendo inoltre di fatto, in un mercato deregolamentato e altamente concorrenziale quale quello artistico e creativo, il principio costituzionale della retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto. Non a caso il lavoro a tempo parziale è la seconda forma più in voga nel settore culturale. La quota di occupati part-time supera del doppio il totale generale, dato che per la verità sembra dipendere più dalle scelte del datore di lavoro che del lavoratore (si tratta di un paradossale part-time involontario).
Si è precari perché la svalutazione del valore intrinseco del lavoro svolto implica un’aumentata percezione di incertezza in termini sia di minori guadagni che di avanzamento di carriera. Questo spiegherebbe anche come nel settore creativo e culturale la percentuale di lavoratori part-time che svolgono un doppio lavoro sia ben più elevata rispetto ad altri comparti produttivi.
Riguardo al volontariato, in questi anni nel settore artistico e culturale si è assistito a un abuso dell’istituto che ne ha svilito le spontanee finalità benefiche fino a renderlo uno strumento di scambio tra occasione di lavoro e qualcos’altro: visibilità, esperienza, conoscenze. È chiaro che lavorare senza essere pagati non è un’opportunità. Fare cultura richiede impegno, studio e serietà. Il messaggio che passa sembra essere quello che riserva importanza esclusiva alla produzione e al consumo di beni manifatturieri, e ancora una volta la cultura – anche quando costituisce un mestiere – viene vissuta come un passatempo, ed è proprio questo lo spirito con cui si giustifica il mancato compenso al lavoro prestato col privilegio di averlo ottenuto.
In concreto, al di là delle classi contrattuali, sono molteplici gli aspetti che rendono il lavoro irregolare: ore non retribuite, giornate non riconosciute, attività non previste dal contratto o dalla commessa.
I professionisti della cultura sono spesso precari della cultura, giovani lavoratori che producono sempre più reddito a intermittenza, con l’aggravante, per alcune professioni, della mancanza di conoscenze tecniche tali da garantire perfino il principio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro, che dovrebbe tener conto delle ricadute benefiche per tutti i portatori di interesse – territorio e società – e non solo del datore/committente.
Per evitare di agevolare la malafede di certi è necessario incoraggiare una diversa tendenza delle dinamiche del settore disponendo tutele adeguate per i lavoratori, nel rispetto delle loro speciali esigenze e della sostenibilità del settore. Ê il legislatore a risultare assente, e questo vuoto di regole adeguate finisce per costringere entrambi i versanti del mercato del lavoro culturale a muoversi nella palude stagnante di forme surrettizie e scambi opachi.
Naturalmente la questione è complessa e non c’è bisogno di una nuova ricetta semplicistica e standardizzata. L’intento è mettere a fuoco le complessità e le problematiche generate da una normativa carente e sconnessa. All’opposto, superare la mera sopravvivenza e raggiungere la vitalità del settore dell’arte e della cultura richiede di ragionare sulla natura di un buon sistema economico che, nel riconoscere il drastico mutamento della società, rifiuta di ripetere formule padroneggiate ma superate e traccia nuove visioni del benessere sociale sostenibili e inclusive.
‒ Fabiana Lanfranconi
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