Deontologia (con)temporanea. L’editoriale di Renato Barilli
Il critico bolognese riflette sulle caratteristiche delle mostre temporanee. Utili, sì, a patto, però, che offrano indagini e approfondimenti di spessore.
Ancora sulla questione se fare mostre temporanee o no. Ritengo che su questo come su altri problemi non si debba intervenire con l’accetta, cioè con decisioni drastiche e unilaterali. L’attività di mostre temporanee è ammissibile, e forse anche necessaria, soprattutto nel caso di un Paese come il nostro, ricco di istituzioni locali che quanto a collezioni permanenti in genere non brillano, e in ogni caso proprio attorno a questi nuclei risulta più che opportuno fare mostre di allargamento, di precisazione del contesto in cui collocare certe presenze, o di darne immagini più ricche e complete. Però abbiamo anche delle istituzioni che magari non dispongono affatto di un proprio nucleo di opere ma che vivono di iniziative effimere e, quel che è più grave, andando a pescare nell’ambito dei soliti artisti super-noti, che proprio non hanno bisogno di nuove comparse in scena.
A questo proposito scatta forse anche un aspetto deontologico nella nostra professione: sarebbe il caso di rifiutarsi di partecipare alla curatela di esposizioni che concedano appunto un po’ troppo al difetto di “far piovere sul bagnato”. In merito posso ricordare una mia esperienza personale. Ero stato nominato dall’assessorato alla cultura della Regione Emilia Romagna quale membro della Fondazione Magnani, quella di Mamiano di Traversetolo, da non confondere col ramo autonomo di Reggio Emilia. In quella veste, mi posso vantare di aver promosso una rassegna monografica dedicata al grande Jean Fautrier, una delle poche che qui da noi si siano rivolte a quel superbo protagonista dell’Informale storico. Avevo cercato di continuare sulla stessa linea suggerendone una rivolta a un maestro di quell’epoca ancor più dimenticato, Wols, ma incontrai l’ostracismo dell’allora Presidente, col pretesto che era un artista di nicchia, incapace di attirare folle plaudenti, e infatti contrapposero a quella ipotesi una banale mostra sul “solito” Warhol. Per carità, nulla da eccepire sulla importanza storica di questo campione della Pop Art, ma il suo none ritorna troppo spesso, magari assieme agli altrettanto abusati Miró, Chagall, Magritte, e aggiungiamo anche il pur magnifico Modigliani.
“Sarebbe il caso di rifiutarsi di partecipare alla curatela di esposizioni che concedano un po’ troppo al difetto di ‘far piovere sul bagnato’”.
Purtroppo, accanto all’opportunità che uno studioso coscienzioso non dia un facile assenso a iniziative di questo genere, rivolte solo a procurare un’affluenza di pubblico, al di fuori di qualsivoglia necessità scientifica, dovrebbe scattare una analoga indisponibilità di commentare sui giornali iniziative del genere, fuori di ogni esigenza critica. Invece i critici si scapicollano per aggiungere la loro pioggerella sul “bagnato” dilagante per conto proprio. E proprio la Fondazione Magnani di Mamiano mi può sbeffeggiare, dato che dopo Warhol questo festival dell’arcinoto è continuato con mostre su Severini, Sironi, eccetera, tutte debitamente recensite sui principali organi di stampa, a mio completo scorno e dileggio.
Per cui, ecco la morale del presente fervorino: diamoci pure da fare per promuovere mostre temporanee, che però intendano condurre una seria indagine e approfondimento, ma evitiamo le repliche pletoriche e prive di importanza.
‒ Renato Barilli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #46
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