L’attesa. L’editoriale di Marco Senaldi
Il filosofo Marco Senaldi riflette sui cambiamenti vissuti dall’idea di attesa in epoca contemporanea. Partendo da una visita alla Fondation Louis Vuitton di Parigi.
È difficile dire come gli storici del futuro, fra ottanta o cento anni, giudicheranno questi primi, lividi decenni del XXI secolo. Quello che oggi a noi appare enigmatico sembrerà certo, ai loro occhi, solo l’effetto finale di dinamiche ben note. Ma, se provassimo anche noi a osservare il presente da un punto di vista per così dire prospettico, forse ci si potrebbe almeno liberare dalla sgradevole sensazione di trovarsi a vivere nel momento sbagliato della storia.
In tal senso, una visita nelle grandi capitali occidentali della cultura, e ai loro neo-santuari dell’arte, non può che risultare istruttiva. Tra questi, uno dei più recenti, e dei più eclatanti, è certamente la parigina Fondation Louis Vuitton, che accoglie il fortunato visitatore – reciterebbe un ipotetico dépliant – con lo sfarzo postmodernista della sua architettura a vele sovrapposte, disassate e scomposte, quasi come i frammenti di un enorme guscio fracassato, dislocati in “pose inesplose” (Battisti-Panella).
Ma l’esperienza soggettiva del visitatore-tipo è del tutto diversa. Collocato con una estrema cortesia (come tale estremamente sospetta) nel bagnomaria di una coda che si infrange contro i bastioni di un metal detector degno di un aeroporto internazionale, viene sottoposto a un delicatissimo processo penitenziale di attesa che costituisce ormai non più l’eccezione, ma la regola d’accesso a ogni sia pur minimamente noto luogo di conservazione artistica o museale. (Piccola parentesi: affrettatevi dunque a correre a visitare qualunque museuzzo provinciale, soprattutto se semisconosciuto, polveroso, mezzo dimenticato – è assai probabile che proprio lì, liberi di entrare senza coda alcuna, anzi accolti con sorpresa dall’annoiato custode, si nasconda l’incerta, ma a volte esaltante, esperienza della scoperta, se non proprio della novità, almeno della non-ovvietà.)
“Oggi l’attesa, da noioso contrattempo, è diventata un’opportunità fortunata, una provvidenziale finestra per controllare la corrispondenza elettronica, inviare un’immagine, postare un commento”.
Alla formidabile mole dell’edificio, e dei suoi non meno formidabili apparati di controllo, corrisponde del resto una stupefacente assuefazione della folla – una disciplina quasi inquietante, che il citato storico del futuro si troverà indiscutibilmente a dover spiegare. Sicuri che lo faccia, potremmo intanto, noi miseri abitanti del presente, azzardare un paio di ragioni: da un lato, occorre considerare il potente charme seduttivo esercitato dalla ricompensa promessa, cioè la mostra stessa; dall’altro, la capacità distraente, nel frattempo storicamente intervenuta, delle nuove tecnologie. Già: perché gli stessi algoritmi che sono stati in grado di trasformare lo scarabocchio di un archistar in un edificio che si regge miracolosamente in piedi, sono anche quelli che governano quei social media che, nell’attesa di visitarlo, tutti, indistintamente, compulsano.
L’attesa, appunto: ecco il mistero che resta insoluto. Perché il minimo che si possa dire è che l’attesa ha cambiato senso. Partorita nell’atroce modernità delle trincee della Prima Guerra Mondiale, come attesa dell’attacco, del bombardamento, e infine della morte, essa è transitata poi dell’attesa del nulla esistenziale, nell’eclissi antonioniana o nelle solitarie domeniche oratoriane di Paolo Conte. Ma oggi l’attesa, da noioso contrattempo, è diventata un’opportunità fortunata, una provvidenziale finestra per controllare la corrispondenza elettronica, inviare un’immagine, postare un commento, rispondere a un “amico” e, insomma, esistere un po’ anche nel mondo virtuale.
“La visibilità ha finito per coincidere con l’opacità più completa”.
Va bene – ma: e la mostra? Ah già, quasi uno se ne dimenticava: bene, una doppia retrospettiva di Egon Schiele e di Jean-Michel Basquiat, accomunati dal triste destino di essere morti entrambi all’età così immatura di ventotto anni. Ma, nella pulizia ineccepibile dell’allestimento, nell’illuminazione impeccabile, nello sguardo attento dei guardiasala, non traspare ormai niente della loro sofferenza esistenziale, niente del loro travaglio creativo, insomma niente di niente. Nella trasparenza totale di tutta la macchina espositiva, capace di scandagliare fino in fondo alle nostre borse e borsette, quello che si dovrebbe veramente vedere, quello per cui alla fine siamo qui, si è misteriosamente eclissato. Nelle teche che racchiudono i segni sgangherati di Jean-Michel, nelle cornici che serrano i tratti dolorosi di Egon, non resta più nulla. La visibilità ha finito per coincidere con l’opacità più completa.
Tutto cancellato: come l’attesa.
‒ Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #46
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