Innovazione, musei e comunicazione
Stefano Monti riflette sulla potenzialità della innovazione tecnologica applicata ai musei e, al contempo, sulle poche risorse nella mani di questi ultimi per trasformare proposte innovative in attività concrete.
Non passa giorno che non venga pubblicato un articolo sul ruolo dei processi innovativi all’interno delle strutture museali: casi di studio, riflessioni argute, opportunità ed esperimenti sono, in questo senso, sempre più frequenti. C’è però un’assenza che va sottolineata: in questo grande filone di confronto manca una riflessione che segni il perimetro tra gli stimoli innovativi e gli stimoli che, millantandosi tali, rappresentano una mera strategia di comunicazione. Dal punto di vista retorico, forse, la differenza potrà sembrare molto sottile, ma nella realtà dei fatti la differenza tra le due attività è notevole.
Proviamo a tratteggiare i confini. Che un museo utilizzi i social network come Facebook o Instagram non è innovativo. Così come non è (più) innovativo utilizzare tecniche di narrazione che si avvalgono delle potenzialità delle nuove tecnologie. In altre parole, l’utilizzo della tecnologia non è, di per sé, sintomo di innovazione.
Oggi innovazione significa principalmente trovare nuove modalità per “interagire” con i visitatori (reali o potenziali) dei musei. Significa definire percorsi di visita quanto più personalizzati, arricchire l’esperienza di visita e fruizione, creare un set di servizi, progetti, contenuti che sia in grado di trasformare una semplice visita al museo in un’esperienza che coinvolga tanto gli aspetti conoscitivi che emotivi.
Per fare innovazione, insomma, non sempre la tecnologia è essenziale. Certo, abbiamo la fortuna di vivere in un momento storico in cui i molteplici sviluppi tecnologici abilitano a forme sempre nuove di innovazione, ma bisogna stare attenti a non confondere le cose. La grande maggioranza dei progetti “innovativi” che si incontrano in giro per il mondo (anche se in Italia il fenomeno è più evidente) si limita a semplici dinamiche di comunicazione? Non è certo colpa dell’assenza di offerta: basti guardare un contest di start-up innovative (anche in Italia) per capire che ci sono moltissime offerte entusiasmanti e coinvolgenti (anche se non sempre disruptive).
Se non è nell’offerta, allora il problema è nella domanda; e quindi nei musei. La domanda giusta da porsi è forse questa: esistono, nei nostri musei, le competenze per comprendere cosa sia davvero innovativo e cosa no? Quanti musei italiani hanno davvero un CTO (Chief Technology Officer)? È questo il punto.
“Per fare innovazione, insomma, non sempre la tecnologia è essenziale”.
Facciamo un esempio. Ipotizziamo esista una start-up tecnologica di tre ragazzi fra i 25 e i 35 anni che hanno sviluppato una tecnologia in grado di misurare le reazioni che i visitatori di un museo hanno nella loro esperienza di fruizione: sensori biometrici, telecamere con riconoscimento delle espressioni facciali, tempo di permanenza ecc. I soci della start-up hanno una forte passione per l’arte e così decidono di presentarsi alle porte della direzione per poter vendere i propri servizi.
Organizzato l’incontro, ciò che mancherà al tavolo è una figura che sappia “mediare” tra i differenti linguaggi dei due portatori di interessi (da un lato la start-up innovativa, dall’altro l’istituzione museale). In altri termini, mancherà chi, nel tavolo delle trattative, saprà comprendere l’offerta che la start-up intende porre in essere e “tradurla” in concetti chiave per la struttura museale. Sia chiaro, non è solo una questione di “linguaggio” ma di competenza: quando una start-up innovativa propone l’installazione di sensori, il museo è terrorizzato non tanto dall’idea, quanto dalle attività necessarie per metterla in pratica: burocrazia, amministrazione, tutela della privacy, possesso dei dati ecc.
Chi dovrebbe dunque “tradurre” l’idea in realtà, il CTO appunto, avrebbe proprio il ruolo di prendere un’idea che viene fuori dal mercato delle start-up in un processo coerente con le istanze di tipo amministrativo cui è necessario adempiere. Senza questa figura, in qualunque modo la si voglia chiamare, il museo tenderà a guardare con diffidenza a proposte che non tengano conto dell’insieme di norme, regolamenti e vincoli cui è sottoposto.
“Abbiamo offerte che potrebbero creare valore per start-up, musei e visitatori, ma non riusciamo a sfruttarle perché manca chi sia in grado di interpretare nel modo corretto queste opportunità”.
Ma questo è un compito che la Pubblica Amministrazione (e non il privato) dovrebbe assolvere. E quindi si crea una situazione di stallo, in cui il direttore del museo vorrebbe, ma non ha le risorse umane adatte a cui affidare la gestione del progetto. Diviene quindi facile “abbassare” il tiro e prendere in considerazione soltanto quelle idee che non creano complicazioni di applicazione.
La riprova? Basti guardare le tendenze a oggi: narrazioni basate su media non tradizionali, presenza online e misure quantitative da poter raccontare ai giornali. In altre parole: storytelling, social network e audiences.
La libera concorrenza è un meccanismo potentissimo, ma ha bisogno di un grande alimentatore: la competenza. Più la domanda sarà esigente, più l’offerta sarà stimolata. Più la domanda sarà “semplicistica”, più l’offerta dovrà adeguarsi. Questa è la situazione in cui ci troviamo oggi. Abbiamo offerte che potrebbero creare valore per start-up, musei e visitatori, ma non riusciamo a sfruttarle perché manca chi sia in grado di interpretare nel modo corretto queste opportunità. Come quando nelle nostre università formiamo potenziali geni, e poi gli chiediamo di lavorare al McDonald’s.
‒ Stefano Monti
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